Prefazione

Incontrai per la prima volta Carlo Gragnani nel 1965, in occasione della uscita del mio primo libro, Introduzione alla fenomenologia come scienza. Gragnani ne teneva in mano una copia, anzitutto perché ci potessimo riconoscere, ma il libro stesso era in realtà la ragione dell’incontro. Tempo prima avevo ricevuto una telefonata da Parigi della segretaria di Gragnani, il quale allora dirigeva la locale sede della Banca Commerciale Italiana, con la richiesta di un appuntamento per un incontro a Milano, dove infatti l’incontro avvenne, nella sala d’ingresso di un grande albergo di Via Manzoni, che oggi non c’è più. Gragnani era allora un uomo di 55 anni; lo ricordo alto, magro, diritto, di non appariscente ma raffinata eleganza, semplice e alla mano nei modi, ma con un tratto di aristocratica distanza che incuteva, senza volere, notevole timidezza nel suo giovane interlocutore (avevo allora 31 anni). Ci sedemmo sulle poltrone del grande albergo e cominciammo subito a parlare del libro. In quel tempo Gragnani era particolarmente interessato alla fenomenologia di Husserl. Dimenticammo presto che era quasi ora di cena e andammo avanti per non so quanto tempo. Da allora non ci lasciammo più. Quella conversazione è continuata ininterrottamente per 45 anni, per lo più a Milano, qualche rara volta a Roma e poi, dal 1983, anche e sempre più spesso a Lugano, dove Gragnani si era trasferito da Parigi e dove è morto nell’aprile del 2010.

Scoprimmo presto che la filosofia e la fenomenologia non erano i soli argomenti che ci unissero: la letteratura, il teatro, certo, ma soprattutto la musica, che si prese una parte cospicua delle nostre conversazioni. Gragnani ha il dono di un orecchio musicale straordinariamente sviluppato, unito a una cultura che spazia in tutti i generi della musica colta. Questo orecchio l’ha molto aiutato e ispirato nella sua scrittura, soprattutto aforistica, e i gusti musicali di Gragnani, il suo Brahms, il suo concittadino Mascagni (del quale ricorda e canta in modo ammirevole interi brani delle opere), non sono estranei ai contenuti della sua prosa. Alla musica si aggiunse presto l’altra grande passione di Gragnani, il buddismo e la meditazione: un tema affascinante, nel quale, grazie a Gragnani che ne aveva non solo estesa conoscenza, ma anche diretta esperienza, riuscii un po’ alla volta a entrare in sintonia, ma sempre con qualche margine di disaccordo dialettico, che poi era il sale e il pepe dei nostri incontri. In effetti ci divertivamo parecchio nello scambiarci idee, nel condividere emozioni, nell’esprimere difficoltà e dissensi, il tutto accompagnato da quella aerea leggerezza e lieve ironia (e soprattutto autoironia) che è un tratto caratteristico tra i più affascinanti della personalità di Gragnani. Il sorriso e non di rado il riso franco e spontaneo erano compagni regolari dei nostri incontri.

Incontri che sembravano svolgersi in una sorta di limbo, estraneo alle vicende che intanto accadevano, nella vita di tutti e nelle nostre due vite. Certo, Gragnani, data la differenza di età, si interessava, gentilmente dapprima e poi sempre più affettuosamente e generosamente, delle mie vicende private: le ovvie vicende di un giovane studioso in lotta, come tanti altri, con difficoltà di vita e di carriera. A questo aspetto era regolarmente dedicato il breve inizio di ogni incontro, per poi riprendere, in piena concentrazione, il filo dei nostri interessi “extra-mondani”, lasciati in sospeso nell’ultimo incontro o nell’ultima lettera, senza più abbandonarli sino alla fine, spesso dopo molte ore o intere giornate. Parlavamo della condizione umana, del destino della filosofia, delle differenze tra mentalità occidentale e mondo orientale, dei particolari delle tecniche descrittive della fenomenologia e delle tecniche di attenzione concentrata della meditazione e così via. Si creava tra noi una sorta di luogo magico, fuori del mondo, ove l’interesse per la verità e per l’osservazione disinteressata della vita in generale occupava tutto lo spazio disponibile.

Conseguentemente di lui, di Carlo Gragnani, arrivai sempre a sapere molto poco. D’altra parte superare la sua corazza di riserbo, quando mi capitò poi di propormelo per l’ammirazione e l’affetto che, nonostante il tratto quasi impersonale dei nostri rapporti, erano sempre più cresciuti nel mio animo, risultò un’impresa quasi impossibile. In verità, il rapporto che ci legava, anno dopo anno, decennio dopo decennio, era difficilmente definibile, almeno da parte mia: di certo molto più e anche altro da ciò che si definisce normalmente come un’amicizia. In un aforisma anche Gragnani ebbe a notarlo, in modo anonimo, naturalmente; ne fui felice.

Cosa so di Carlo Gragnani? Ricordo distintamente quando, agli inizi della nostra relazione, mi regalò un suo libro sulla Moneta di sale (vedi poi La moneta nelle colonie inglesi del Nord America, Zanichelli, Bologna 1935). Con queste pubblicazioni Gragnani aveva ottenuto la libera docenza in Economia, che era la facoltà nella quale si era laureato a Firenze. Lavori acuti e originali, soprattutto per quei tempi. Già il giovane Gragnani vi dispiegava quella che è una delle sue migliori qualità: l’estrema lucidità intellettuale e il dono della chiarezza concettuale. La via per una carriera accademica era aperta, ma Gragnani non la intraprese. Credo di aver capito che ciò accadde anche per la sua avversione al fascismo, che allora pretendeva dai professori universitari un giuramento di fedeltà: davvero un’enormità folle per il carattere di Gragnani. Della sua vita precedente so pochissimo. Era nato a Livorno il 14 aprile del 1910. La sua mamma aveva una bella voce di soprano, con la quale incantò il suo futuro marito. Già adolescente Gragnani scoprì la passione per la musica, ma anche la passione di vivere appartato, in una sua schiva libertà interiore. Tanto per dire, la chiamata al servizio militare, che tanti aborrono, la visse invece con la gioia (decentemente mascherata, ma non del tutto passata inosservata tra i parenti) di potersi finalmente allontanare da casa. Questo desiderio di autonomia lo condusse a intraprendere presto vari lavori. So che era a Roma, negli anni della guerra. Forse non fu estraneo alle attività di opposizione al regime fascista, ma farglielo ammettere è pressoché impossibile. Di certo appartenne alla piccola schiera di giovani economisti che affiancarono il primo governo repubblicano di Parri. Poi seguì a Washington le sorti del nostro governo, dapprima come collaboratore del primo Governatore della Banca d’Italia del dopoguerra e poi nel prestigioso incarico di Direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, dal 1952 al 1960. So che in seguito rifiutò di continuare la sua carriera all’interno della Banca d’Italia, mentre accettò volentieri di dirigere la sede parigina della Banca Commerciale Italiana fino al 1975. Il fatto è che gli piaceva vivere a Parigi e perciò badò bene a non farsi coinvolgere poi in ulteriori avanzamenti di carriera. Sono riuscito bene nel mio lavoro, mi disse più volte, sostanzialmente perché il mio interesse nei suoi confronti era piuttosto tiepido e distaccato. Divenne presto un personaggio a parte, nei vertici sommi della Banca Commerciale. Il suo passo indietro da ogni ambizione di ulteriore acquisto di potere lo rese l’ago della bilancia di molte situazioni delicate, nonché l’ideale messaggero per le più complesse negoziazioni internazionali. Gragnani vi si impegnava con straordinaria puntualità e insieme leggerezza. Ricordo il fuggevole sguardo che mi capitò di indirizzare a una sua camera d’albergo a Roma, nella quale si alternavano vari libri appena comprati (la visita delle librerie ovunque andasse nel mondo era un rito immancabile) e una serie di strani fogliettini disposti per ogni dove, sul letto, sulle sedie, sul comò, infilati nello specchio, nei quali erano scrupolosamente segnate tutte le incombenze di lavoro che si dovevano affrontare.

Il trasferimento a Lugano e la morte della moglie Alda, con la quale Carlo aveva stabilito negli anni una convivenza caratterizzata da profondo affetto e rara armonia, si accompagnarono all’emergere di una sempre più evidente ispirazione e vena letteraria. Sino ad allora Gragnani si era soprattutto dedicato a brevi scritti (prevalentemente redatti in inglese e in francese) sul buddismo e sui rapporti tra il buddismo e la fenomenologia, scritti di rara lucidità, pregnanza e originalità di impianto (Three Symbolic Ways of Life, Buddhist Publication Society, Sri Lanka 1979). Carlo cominciò a gettare sulla carta annotazioni sintetiche, che presero presto la forma di veri e propri aforismi. Ne ricevevo sempre un certo numero prima di ogni nostro incontro. Li rileggevamo, spesso con molto spontaneo divertimento e spasso, e ne discutevamo insieme; me ne leggeva altri e mi esponeva la sua “teoria”: un aforisma, diceva, deve tutto il suo effetto alla sorpresa, alla brevità, alla capacità di alludere senza dire, grazie a una sintesi tra immagini ed espressioni comuni, che spesso vengono stravolte. L’esempio sommo, in questo senso, credo sia “Se son rose sfioriranno”, che esprime anche, nella maniera più sottile e fulminea, l’intera filosofia di vita e di pensiero del suo autore. Poi agli aforismi Gragnani aggiunse quelli che chiamava i “raccontini”: pagine esemplari che fanno da sfondo e da accompagnamento alle lampeggianti proposte aforistiche. Gragnani prese il piacere di raccogliere, anno dopo anno, le sue composizioni in aurei libretti: stampe private o semiprivate che fui felice di contribuire a far nascere tipograficamente.

Come al solito, Gragnani si nascondeva. Trattava con la consueta leggerezza e ironia i suoi talenti letterari, ma non poté impedire che qualcuno se ne accorgesse, al di là della ristretta cerchia di amici e conoscenti, che erano i destinatari delle sue piccole pubblicazioni private. Dopo che l’intera produzione di aforismi e raccontini è stata da me ristampata nel 2010 (sempre in forma privata), in un volume intitolato Per amor di completezza, adesso una buona parte della produzione di aforismi di Gragnani viene raccolta in questo nuovo volume della collana editoriale “Aforisticamente”: invidio l’occhio e la mente del lettore che abbia in sorte di leggerli per la prima volta, sperimentandone l’effetto assolutamente straniante, esilarante e trascinante.

Con il procedere nella lettura, sorprendentemente anche il cuore ne verrà profondamente toccato. Gragnani è un tipico e a mio avviso molto significativo scrittore di “cose morali”, un “moralista”, nel senso classico della espressione. Il suo esibito pessimismo, la sua ripetuta denuncia dei mali del vivere, il suo ideale rifiuto dell’esistenza sono infatti solo lo strato più evidente della sua personalità e del suo pensiero. Assieme a tutto ciò e nel profondo della scrittura, del suo stile a tratti scanzonato, a tratti spassoso, ma talora anche pensoso e persino tenero e affettuoso, emerge via via una fortissima e accattivante partecipazione alla universale condizione umana, osservata senza illusioni e facili mitologie, ma anche con umanissima partecipazione e simpatetica condivisione; condivisione del dolore, del male, delle illusioni, delle delusioni, delle speranze, ma anche dei moti di amore genuino e delle gioie transeunti che pure la vita ci riserva. Il pessimismo “cosmico” di Gragnani non si esprime mai in giudizi perentori, non ha pretese di verità assoluta, non si traduce mai in idiosincratico rifiuto di partecipare ai sia pur transitori ed evanescenti piaceri che la vita può riservarci. È appunto una pienezza del vivere e del fare esperienza, senza pregiudizi o preconcetti, che si apprezza nella filosofia di Gragnani, del tutto conforme a quella che fu e che è la sua pratica di vita. Lo sentiamo vicino, non come un accusatore e tanto meno come un polemista in guerra contro il mondo; nelle sue parole sentiamo invece il suo disponibile sorriso e il suo discreto prenderci per mano, amichevole, rispettoso, delicato, attento a non imporre la sua presenza, ma mai assente o estraneo. È così che sento Carlo Gragnani da 45 anni: figura irrinunciabile e tratto incancellabile della mia vita, compagno e fratello maggiore nel cammino mortale, paziente e silenziosa esibizione del coraggio di vivere che, senza mostrarlo e nemmeno proporselo, insegna a chiunque lo avvicini una grande lezione di umanità e di saggezza.

Carlo Sini

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