PREFAZIONE

Nel tempo dell’omologazione di tutte le forme della comunicazione, dei linguaggi codificati, della felicità ridanciana esibita a tutti i costi, del parossismo della velocità, della tecnologia che rischia di spegnere l’immaginazione, la poesia resta un rifugio, forse elitario, per ritrovare il senso profondo della vita e dei suoi misteri.
Questa riflessione si affaccia spontanea al lettore di Utopie del mio tempo di Fernando Di Gregorio, una raccolta poetica intrisa di sogni, solitudini, nostalgie, amori, immagini di bellezza, pensieri trascendenti di morte e di speranza. L’itinerario poetico è segnato dal titolo stesso della raccolta (Utopie), che ricalca quello di due poesie, ma tutte le altre sono egualmente frutto di voli e d’introspezione, mirate sempre ai segreti dell’essere e del vivere. Il “reale” è fuori da quest’orizzonte poetico. Unica, apparente, concessione sono le descrizioni di paesaggi che diventano nitide immagini di bellezza, tele davanti agli occhi del lettore, ma che sono presenti nella raccolta solo perché suscitatrici di moti dell’anima. Bisogna aver saputo vivere direttamente l’incanto di un tramonto autunnale sul mare , coi suoi colori cangianti, o quello di un incontaminato cielo notturno, per scrivere A sera (“Luccicano / come pepite/ all’ultimo sole d’arancia / le spume del mare”) o Frammenti (“Frammenti / d’argentine perle / sprizzano / nel cielo blu di prussia”).
Nel linguaggio utilizzato la parola balza dal testo come suono e immagine, ed essa tanto più attrae, quanto più trame e senso sfumano e si diradano lungo linee che si perdono in lontananze. Un linguaggio che evoca, con toni d’autenticità, quello degli Ungaretti, dei Montale, dei Quasimodo, dei Cardarelli, che è poi il linguaggio vivo e spontaneo del nostro tempo, semplice e alto insieme quando si cimenta con l’inesprimibile.
Ritroviamo spesso le spigolosità alla Quasimodo; la forza disarmante dei brucianti interrogativi ungarettiani (Perché: “… perché, / o mio dio, / nell’angosciata notte / ti cerco disperatamente?”; Lamento: “Arida terra / brulicante di vermi / perché non mi accogli?”); musicalità e immagini che ricordano il Montale di Meriggiare pallido (Cerco la pace: “… ombre di rondini / fruscii di serpi”; Rovi: “… su questi sentieri / di serpi aggrovigliate / … ho ritrovato quel niente / … di rovi e filo spinato); la più volte ripetuta invocazione della morte amica, fatta di speranza e paura insieme, tanto cara anche a Cardarelli (Il mio tempo: “… t’aspetto, amica morte”; Aspetto l’ora: “… Aspetto l’ora / che mi viene / incontro / lieta: la morte”).
Per concludere le impressioni di un comune lettore di poesie – gratificato dell’impari compito di presentare questa nuova raccolta di Fernando Di Gregorio, poeta ormai affermato – vien fatto di dire che si esce dalla lettura di Utopie del mio tempo con un senso di appagamento spirituale e con quella malinconica felicità che talora sanno dare parole vere, quando diventano suggestività, canto ed immagini, cioè vera poesia.

Ortensio Zecchino

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