LETTERA AL LETTORE

Caro lettore, come prefatrice, sono l’ambigua custode delle domande che non potrai porre. Ti immagino, avendo tra le mani un’“opera prima”, audace aver voglia di chiedere all’autore: e così vorresti fare lo scrittore? La risposta è nota: “Se non ti esplode dentro / a dispetto di tutto non farlo / a meno che non ti venga dritto / dal cuore e dalla mente e dalla bocca / e dalle viscere, / non farlo”. Come il Bukowski poeta che (si) poneva la scomoda domanda, Flavio Scaloni non lascia perdere, ed è la sua stessa poesia a rispondere, con la necessità di un ruggito, nel suo naturale disinteresse a “scrivere come qualcun altro”, nella sua es­senzialità che è quanto di più lontano dall’autocompiacimento, nel suo assoluto disinteresse a imitare quelle migliaia di persone che si definiscono scrittori
Non troverai pezze d’appoggio, niente ti asseconderà nella vanità, nel volgare piacere di riconoscere citazioni nascoste che non segnalano altro che un vuoto.
Troverai invece una galleria di ritratti, di “momenti perfetti”, come direbbe il Roquentin sartriano, istantanee che sfuggono allo sguardo o più classicamente illuminazioni, non provocate ad arte, ma sapientemente attese con fiducia d’artista. 
Non ti stupisce con effetti speciali, Flavio Scaloni, e non intende regalarti niente, neanche sensazioni a buon mercato. Nella sua poetica, radicalmente inattuale, il sensazionale sarebbe pornografia. L’emozione non è esibita, e non è neanche voluta, piuttosto è provocata, come un distratto effetto collaterale dei quadri a infinite dimensioni che sono le sue poesie.
Spesso brevi, dei lampi, che ci strappano al nostro sguardo ordinario sulle cose per rivelarci un altro mondo. E sì, questa è la classicità che troverai, quella della Musa, dell’ispirazione che è fatta di semplice ascolto, di attenzione e apertura e mai di presa violenta, mai una volta di plasticità forzata. Riprendono senza prendere, afferrano senza trattenere, guardano senza imprimere, ascoltano senza interferire col canto, suggeriscono un ritmo senza scandirlo, le poesie di Flavio Scaloni. E lasciano sulla carta di noi che leggiamo più contorni che disegni, più luci che colori, più odori che concetti. 
E se i concetti sono lì, schiaffati in prima pagina, è proprio perché si dissolvano del tutto. Così come al dissolversi si destina l’autore stesso. «Il poeta è un mezzo», leggiamo, strumento della Musa, la vera artefice che si serve delle parole del poeta per realizzare l’Arte. Al poeta-veicolo è interdetto persino ritornare sui propri versi: l’ispirazione stessa ha gli attributi del sacro, sull’interprete dei messaggi del­la Musa incombe, per sua stessa natura, l’accusa la più infamante, l’accusa del tradimento. Sembra profilarsi all’orizzonte, in questa poetica così ostentatamente esibita nel brano introduttivo, una forma sublime di passività artistica, all’altezza della classicità, auto-espulsa dalla modernità nel fiero rifiuto del gioco post-moderno, al contempo cittadina di una contemporaneità pre-moderna, pur tuttavia spesso leggera, godibile… e profondamente difficile. Oggi, nell’Impero della soggettività pura, del mito illusorio della creazione libera e auto-fondata sull’individuo, nella potenza plastica che non è più neanche prometeica ma solipsistica e nichilista per sua essenza, la passività divina qui proposta appare in tutto il suo potere sovversivo. Se l’Attività del soggetto è puro gio­co, riformulazione debole dell’ordinario grigiore, la Passività dello strumento di un’ispirazione incommensurabile all’esperienza quotidiana è una tragica e appassionante sfida allo svuotamento dall’interno del­le forme contemporanee di espressione artistica.
Passività che si apre all’ispirazione, dunque, e che realizza attimi di estasi artistica, immortalati e restituitici con l’umiltà di chi tenta di raccontare un’esperienza ultramondana. Eppure, così mondani sono gli oggetti che ti incanteranno, incatenando l’occhio al rigo e forzandolo al verso successivo, co­me se l’ispirazione di Flavio Scaloni avesse il potere di contagiare il nostro sguardo, che per osmosi, o per divina magia, diventa anch’esso mezzo dell’Ispirazione, tutt’uno con lo sguardo del Poeta. 
Pesci rossi, donne, cani, uomini, emarginati, figure che si caricano nei versi e prendono vita in un tratto leggero, in forme perfette e al contempo spaventosamente reali. Momenti di ordinario sconforto trasfigurano in meditazioni, e sì, lo sentiamo nella carne il divino che scuote l’abitudine e la illumina con l’inebriante sensazione dell’eterno ritorno. E no, non è retorica, perché in questi versi c’è il Potere, più che mai raro, della comunicazione senza il messaggio. «Questa raccolta non ha scopo», è la prima frase che leggiamo, ma agli «incontri medianici» tra Flavio e la Musa partecipiamo in prima persona.
Come trattenermi, caro lettore, dal confessarti che mi sono persino affezionata alle figure che abitano queste pagine, e che ho ancora sulla pelle le sensazioni che le attraversano? Dal misterioso personaggio i cui «occhi mi uccidono di luce», al volto amico e sincero di Michele, dall’orgasmo segreto ed eterno di Paolina, agli occhi grandi, «due blocchi di miele», del cane, dal «maledetto drappo dorato» di Medea, all’invettiva contro Platone. E poi Anthony, Piera, Eva, Carla, Linda, Mario e tanti altri a comporre una galleria di personaggi, tanto efficacemente descritti da lasciarti la sensazione di esserne amico, di conoscerne i segreti e i dolori, come accade nelle migliori opere di narrativa.
Solo che questa è poesia, vera poesia, che su­blima e incide mentre narra e descrive. E in un alternarsi di versi amaramente ironici e afflati lirici, parla inglese, francese e greco, cita Palazzeschi, Parmenide, Eraclito e lascia emergere il mito e la classicità, lanciando la parola oltre ogni confine linguistico e culturale, scompaginando, ma senza proclami, codici e stanche consuetudini.
A te che, che ti accingi a leggere questi versi, voglio infine dire che non so, per rispondere ancora a Bukowski, se la poesia di Flavio Scaloni sia davvero “uscita dall’anima come un razzo”, ma all’anima come un razzo ti arriverà senz’altro.

Maria Carla Trapani

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1 recensioni per Stella di seta

  1. Simone Ramino

    Ho appena prelevato il libro dalla cassetta della posta. Meraviglioso. Copertina pazzesca, veste grafica complessiva anche. Le poesie sono brevi e concrete, fluide e musicali. Sintesi quasi perfetta tra Oriente ed Occidente. Grande classe.

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