PRESENTAZIONE

Il volume raccoglie buona parte delle poesie scritte tra il 1968 e il 1978 e organizzate in quattro sezioni: Diario ISotto il cielo di tuttiDiario IIRipresa.
Non bisogna lasciarsi ingannare dalla parola Diario. Qui «diario» non vuol dire confessione, annotazione di moti personali individuali intimisti, ma recupero (in una società dissacrante e dissacrata) dei sentimenti e dei valori della gente che ci circonda, recupero operato con un’adesione spirituale del poeta che si mantiene tra commozione e autocontrollo. Non c’è sentimentalismo. In tutte le quaranta liriche non trovi mai termini come «amore» o «cuore», ma l’afflato umano accompagna sempre i personaggi, le creature, le cose, costituisce come il sottofondo musicale, di una musica naturale e pure saggiamente misurata nelle sue note.
Non poesia soggettiva, intimista, dunque, ma poesia sociale nel senso più lato della parola (che poi è quello più vero), perché mira a recuperare i valori che fanno di un uomo un individuo, una persona con diritti e doveri umani, con compiti e responsabilità sociali. Una società migliore non può essere una manna scesa dal cielo, non un evento fatalistico né l’attesa di un governo perfetto o di una legislazione giusta e rispettata, ma anche e soprattutto un impegno morale individuale, una realizzazione di sé in armonia con gli altri nel rispetto e nella comprensione di tutti.
Per questo la poesia più impegnativa è quella che dà il titolo alla raccolta. Sotto il cielo di tutti è un poemetto composto nell’aprile-maggio 1969 e affronta, non in modo politico-propagandistico o retorico, alcune piaghe sociali e mondiali di allora (la fame, il razzismo, la guerra arabo-israeliana, la guerra nel Vietnam) che evidenziano la malvagità degli uomini, le ingiustizie, il vergognoso disprezzo delle più elementari leggi umane e civili. Anche qui l’Autore non esprime un giudizio politico né ideologico, ma fa una valutazione umana dei problemi e degli avvenimenti. Ebrei o arabi o vietnamiti o americani sono tutti uguali, esseri umani infelici che si ammazzano senza una plausibile ragione che possa giustificare il ricorso alle armi. Significativa e commovente è la figura della miliziana Nguyen Thi Hang che, colpita dagli «occhi azzurri» del «gigante Bob», suo nemico, intima ai contadini di non torcere un capello al prigioniero e «bestemmia la guerra schifosa / la guerra che fabbrica nemici». Di tanto male, dice il poeta, ogni uomo è responsabile, ogni uomo che viva nel benessere economico e sociale «si vergogna di essere uomo».
La poesia, intuizione ed estensione profonda dell’umano sentire, sgorga impavida e rigogliosa dagli animi più sensibili, che più facilmente si lasciano «commuovere», cioè toccare, dallo spettacolo vario della vita. Questo permette di esprimere segretamente le proprie sensazioni per donarle agli altri. È indispensabile però la pratica di una virtù che rarissimamente, se non si è poeti, noi possediamo in quanto contraria all’istinto umano: quella di saper indagare nella nostra anima e valutare l’anima altrui con notevole indulgenza.
E il poeta Michele Battaglino riesce mirabilmente ad attuare per mezzo dei versi di Sotto il cielo di tutti l’indagine introspettiva. Espone parte della sua vita, delle sue sensazioni, delle sue «commozioni» di fronte alla realtà, a volte ottimistiche, più spesso pessimistiche ma di un pessimismo sempre aperto a un filo di speranza, di fiducia. Il linguaggio che Battaglino usa è volutamente semplice, intessuto di termini e stilemi della parlata quotidiana. A prima vista potrebbe sembrare normale o banale, e invece è una ricerca e una conquista. Parsimonioso è l’uso dell’analogia, della sinestesia e di altre figure, mentre più frequente è il ricorso agli enjambements che sono come un «abbraccio» colloquiale e affettivo. L’Autore va al di là non solo dell’esperienza ermetica ma anche delle «novità sperimentali» della Neoavanguardia e dei Novissimi. Il suo linguaggio, pur così naturale, è frutto di una lunga frequentazione dei poeti greci e latini e della migliore letteratura del Novecento nostrana e straniera. Fra gli italiani si possono ricordare (ma solo per dare un’idea) poeti come Saba, Montale, Quasimodo, Sereni, Pasolini. È possibile rinvenire anche qualche collegamento con Lavorare stanca di Pavese.
Frequente nella poesia di Battaglino è l’uso della seconda persona (come in Fine dell’estateQuello che rimarràGonvorPIPaeseSe cala il silenzioVia sognoNuovi filtriFrancescaGiovane del Sud) o della prima (come in Ante diemLamento) che imposta e intrattiene un dialogo con gli altri, un dialogo diretto su problemi vivi e scottanti, su sentimenti profondi. L’uso di questo stilema si allarga alla sezione Ripresa che contiene poesie del 1978, nelle quali anche l’impasto linguistico e la struttura del periodo si fanno più maturi e complessi.
La terza persona invece opera in genere distacco, isolamento. Si pensi a Solo tra la folla dove il concetto di solitudine e di emarginazione dell’emigrato è reso ancora più forte da questa specie di distacco operato dalla rappresentazione in terza persona. Lo stesso effetto si ha in Donna viva e La vecchietta del caffè.
Molteplici sono i motivi che ricorrono in queste liriche, le cui tonalità sono variegate da infinite coloriture e altissimi valori, tra cui il ricordo dell’infanzia spensierata, della trepidante adolescenza, della goliardica vita universitaria, delle splendide giornate primaverili. Altri temi ricorrenti sono: la donna vista in tutta la sua complessa e umana psicologia; la morte come dura realtà che però svela l’uomo nella sua sana genuinità; la città; il mare; la famiglia; il paese dove la mente, durante il peregrinare, torna a rifugiarsi perché non vi trova «nuvoli / di gas, nevrosi continua di gesti, / soffocanti grattacieli»; l’inutilità e la vergogna della guerra; il razzismo; l’emigrazione; la vacuità del servizio militare. Queste e altre notazioni prendono corpo in un semplice quadretto armonico, di cui non manca il musicale accento, simile a una sinfonia.
Si nota fin dalla prima poesia, Metamorfosi, la gioconda libertà della campagna, serena e immacolata, dove la Natura, conciliata con se stessa e con gli uomini, profonde, senza sorte né misura, il meglio di tutti i suoi doni: dove trasmuta liberamente ogni triste pensiero, ridando una più gradevole serenità. Infatti il tono conclusivo della lirica è quasi un inno d’arcano sentire: «Metamorfosi della vita: / d’un balzo tutto è mutato, / finito, / e vano resta il rimpianto».
Da ciò già il poeta ci permette di gustare tutte le tonalità morbide e accorate d’un tempo ormai perduto. La gioia infatti si smaga lentamente col fluire languido degli ultimi bagliori solari e con essi si dilegua anche il sogno di una felicità agognata per non ritrovarla che in quelle «carezze con la mano / nel tuo continuo risalutare».
Nostalgia dell’infanzia, vaghezza dei ricordi, sogni a occhi aperti, progetti allegri, a lungo meditati e mai verificati: ecco quanto rimpiange il poeta.
È perspicace e ben intuito il contrasto tra la giovinezza e la senilità ne La vecchietta del caffè, la cui visione degli innamorati la riporta indietro nel tempo suo primo, quando anche lei, fresca e giovane, anche se non bella, soleva vagheggiare un sogno d’amore. Il rammarico del tempo andato però è senza invidia per quei due amanti che si abbracciano liberamente, unendo nel concento sentimentale quel meraviglioso processo naturale tra un uomo e una donna.
Anche la solitudine corre sottile e impalpabile tra i versi di Michele Battaglino. Più appariscente la si nota nella lirica Donna viva, dove egli esprime in un quadro mirabile («Due mariti morti e i figli come uccelli andati via / a vedere l’aurora per il mondo») la visione impareggiabile dell’amara solitudine della donna, non guasta però dal ricordo, anzi confortata da esso. La donna, invero, nonostante sia rimasta sola e all’inizio della vecchiaia, è viva, sprizza ancora vitalità e perciò «raccoglie le forze per fare gli ultimi / passi contro l’inesorabile destino, contro / i fantasmi del passato che la tirano via».
E ancora il poeta ci porge in una sintesi meravigliosa la visione della guerra, sofferta, sia pure a distanza, più di un partecipante ad essa. Egli accorato evoca parole di pace: odia e ripudia tutte le atrocità che si commettono «sotto il cielo di tutti».
E questa lirica, abbastanza ampia e lunga, separa il Diario I dal Diario II, il quale ripropone i temi già esposti nella prima parte con qualche riflessione ancor più profonda.
Già all’inizio, in Quest’afa, si evidenzia la constatazione momentanea di un attimo di solitudine, in cui l’uomo contempla il disagio dell’afa con evidente disgusto, anche se qua e là riaffiora la nota «impronta di un volto» che il poeta continuamente ricerca.
In PI ripropone il nostalgico ricordo del bel tempo goliardico e sembra quasi chiedere alla città se essa possiede ancora quelle usanze avite, mentre si abbandona alla rievocazione delle sue ansie, trepidazioni, dubbi, diletti e continue ricerche di conoscere se stesso e gli altri.
Il poeta esce sempre più fuori dal suo io e si guarda intorno a studiare gli altri e la varietà della vita. Questo avviene soprattutto con Ripresa, l’ultima sezione della raccolta.
In Francesca si coglie abbastanza bene l’aridità, l’amarezza, il vuoto della vita di una moglie sterile che cerca nel paese del marito, durante le ferie, di «riposare» la sua «irrequietudine», dimenticando per poco la sua città del Nord dove «un freddo nelle stanze / dura da tempo e si disperde / in mille ripetizioni la vita».
In Giovane del Sud, che è certamente uno dei componimenti migliori, il poeta rappresenta con evidenza e profonda umanità la pigrizia, la «flemma monocorde» dei giovani meridionali che sciupano ogni loro energia distesi al sole o rintanati «al fumo / tagliagole dei caffè» e indica loro la via del riscatto: trovare in sé stessi il «lampo» necessario che li immetta «nel gorgo della vita».
La solitudine e l’emarginazione dell’emigrato è un altro tema rappresentato in Solo tra la folla con schietto e doloroso realismo, accompagnato dalla viva partecipazione del poeta.
Leggendo All’amica poesia, che chiude la raccolta, la poetica di Michele Battaglino si fa esplicita e ci conferma quanto già scoperto nelle pagine precedenti: cioè la concezione di una poesia sociale nel senso già esposto, la quale nasce da un continuo scavo-ricerca «nelle miniere nostrane», cioè in se stesso e negli altri.
Naturalmente, per attuare questa ricerca sarà utile ripiegarci su noi stessi, esercitare la forza della ragione su quella del sentimento, disseppellire la nostra profonda verità dalle varie stratificazioni: e, quando, così operando, riacquisteremo la luce che nella nostra anima, non più confusa e aggrovigliata, ci farà distinguere vizi e virtù, pregi e difetti, inganni e verità, sincerità e finzioni, il bene dal male, allora ci resterà il solo compito di insistere, come fa il poeta, nell’indagare e valutare più il male che il bene, e liberarci da quello e proporci di colmare con altro bene il posto rimasto vuoto. Non saremo del tutto saggi neppure allora, ma avremo conquistato gran parte della giustizia e della verità della vita.

Milano, maggio 1980
Raffaele De Lauro

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