PREFAZIONE

Alla fine degli anni Ottanta del Novecento Luciano Calvi pubblicava due libri di Poesia: precisamente, Risonanze, nel 1987, ed Erbario metafisico, nel 1990. In quel periodo, ancora imperavano gli influssi montaliani. Eugenio Montale era appena mancato nel 1981; aveva vinto il Nobel per la letteratura sei anni prima. Il tema del rapporto dell’uomo con l’assoluto era considerato centrale, anche se lo stesso Montale ammoniva di non cercare “la parola che squadri”. Semmai, ancora sotto l’influsso di Thomas Stearns Eliot, si cercava il correlativo oggettivo, cioè il rapporto con certuni oggetti fisici, si potrebbe anche dire, montalianamente, le occasioni che posseggono la valenza di raccordo, di evanescenza, di trasvolo verso un’attrazione dell’oltre non bene identificata.

Si trattava – e potremmo ben dire che tuttora si tratta – di oggetti umili, abitudinari, quotidiani, situazioni ordinarie, nulla di epico e di magico, ma comunque congiunzioni contraddistinte da un alone inspiegabile di alterità. Per usare l’espressione a quel tempo studiata da Luciano Calvi, si sarebbero potute definire erbe metafisiche. Il ricorso ai fiori, così effimeri e caduchi, ma anche chiassosamente estetizzanti con quel loro trionfo di forme e di colori, aveva trovato il massimo impareggiabile dell’espressione poetica, di innovazione e di rottura, negli ottocenteschi Fleurs du Mal, cioè nel ribaltamento totale dell’etica e dell’estetica borghese per celebrare invece la ribellione, la scapigliatura, l’alcolismo e le droghe, in una parola il maledettismo, nel quale poi vedremo tuffarsi con festosa irresponsabilità praticamente tutta la società borghese.

Va detto che Luciano Calvi non è un seguace dei poeti scapestrati e ancora meno un sostenitore del maledettismo. Tuttavia, è sensibile a quel sentimento di indefinita “attrazione dell’oltre”, che costituì un filone ben delineato della letteratura di fine Novecento e di inizio Duemila, basti citare Mario Luzi, Giorgio Bárberi Squarotti per arrivare fino a Corrado Calabrò, tanto per prendere orientamenti con alcune pietre miliari della Poesia di attualità.

Ultimi cerchi, a dispetto del titolo argutamente dantesco, non allude affatto né a una discesa agli inferi né a una ascensione ai cieli superiori, ma semmai fa coniugio ancora una volta, seppure da lontano, con la poetica tanto di moda oggi del wanderer: viandante, viaggiatore, pellegrino, vagabondo, erratico, ecc. C’è anche la versione canterina del wanderer, data dai discendenti dei trovatori medievali, che avevano la quinterana al collo a cinque corde, anziché la chitarra a sei corde adottata dai cantautori contemporanei. Pensiamo a Leonard Cohen e a Georges Moustaki, Le Métèque, il viaggiatore ineguagliabile, che si abbevera ad ogni fonte, ma che sogna un approdo sicuro fra le braccia di un amore che sia altra cosa dagli amori erratici.

Se si leggono in chiave di metafora i quattordici lievissimi e luminosissimi testi della piccola collezione Ultimi cerchi, si riscontrerà che i calcoli tornano. I dardi metaforici centrano l’obbiettivo: questa figura poetica di pellegrino in cammino dentro la vita, dà segno di avere trovato la sua splendida chimera, per un amore senza età, che durerà per una breve eternità: esattamente come canta l’impareggiabile Métèque.

Se poi volessimo andare alla ricerca dell’antenato del wanderer, celebrato dai cantautori e dai poeti di oggi con grande successo di folle deliranti, come accade a Zucchero Fornaciari e a Vasco Rossi – folle ben minori sono quelle dei poeti, perché composte solo dagli amanti della lettura e del pensiero, che da millenni sono in numero infimo rispetto a coloro che si esaltano con musica martellante e con banali parole – troveremmo che l’antenato da cui tutti noi si discende è sempre lui: Charles Baudelaire, con la sua etichetta di flâneur, dicasi il bighellone, che va a spasso senza meta per la città, beandosi di osservare ogni cosa come se fosse un marziano, proveniente dalla quinta dimensione.

Luciano Calvi è consapevole di scrivere le sue poesie sulle foglie che il vento disperde, perché cita apertamente il XXXIII Canto del Paradiso, dove Dante parla di Sibilla, raffigurata da Michelangelo nella Cappella Sistina: Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla. Si disperdono le sentenze di Sibilla, come si involano i versi dei poeti, che sono stati scritti per ricordare, aere perennius, i luoghi e i tempi della vita, mentre la neve li disfa e il vento li disperde.

Tra i luoghi citati da Calvi è compresa una affascinante cittadina bretone, Douarnenez, col porticciolo collocato sul vasto oceano Atlantico. Tuttavia, ogni ricordo diviene flou, cioè sfocato e appannato, perché la memoria tanto conserva quanto tradisce o meglio reinventa il passato. I ricordi modificano la realtà dei fatti accaduti. Per questo motivo, nel cassetto del canterano c’è un grillo canterino, che fa cri-cri, eppoi tace, chissà per quanto tempo ancora. Forse, per il tempo di compiere un fly, un volo da graffittaro che imbratta il muro con gli slogan del “tutto e subito”, diciamo un sessantottino o un matto. Perché, allora, non volare in Via Desana, undici, ove ci sarà stata una precedente residenza, ricca di “soli che non vedo”? Finché sempre si rinnova – tra refoli, fiati, sussurri e aloni luminosi – un fato descritto da uno “spiraglio d’astri” e ripropone indefinitamente il canto sirenico, “l’antico miraggio”.

La poesia di Luciano Calvi è fatta di versi brevi, scelti con cura e modellati per l’armonioso scorrimento tipico dei sassi consumati dall’acqua: parole ricche di storia e di cultura, ma anche sognanti e polivalenti, trattengono qualcosa di misterioso e di inviolabile, come avevano insegnato a fare i poeti ermetici, con formule nette, quasi enigmatiche, talvolta con echi di rima o di assonanza, in alternativa come discorsi improvvisati, in una sorta di luccichio stupefacente di autoschediasmi.

Sandro Gros-Pietro

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