PREFAZIONE

La poesia è per Miriam Bonamico il dialogo di corrispondenze tra le manifestazioni della vita e i simulacri che la realtà suscita in noi come attesa della parte incompiuta dell’essere. Noi siamo di più di ciò che siamo, sembra dirci la poetessa. In ognuno di noi agisce l’aspettativa di una dilatazione personale del mondo, che diventa espressione sia delle conquiste sia delle sconfitte, e in cui fortemente si radica il dolore per le perdite subìte, ma anche risplende la gioia per l’armonia raggiunta con la creazione. È una condizione fragile come la bolla di sapone. È uno stato privo di corporeità, ma è anche il riflesso della realtà del mondo circostante, perché la pellicola è luminescente degli umori reali del mon­do. Ed è anche brillante per le luci e per i silenzi che vivificano l’interiorità della poetessa. In questo processo di osmosi tra l’interno e l’esterno, di e da sé, si articola il dialogo poetico: i singoli versi, le brevi strofe, le articolate stanze, l’architettura complessiva della parola.
Straordinaria importanza ha per Miriam Bonamico il contatto creativo con la realtà. La realtà appare come la creazione continua di ciò che esiste, di ciò che è. Conoscere la realtà del mondo significa, per la poetessa, creare il mondo, il quale assume consistenza e coscienza di sé nell’atto in cui noi ci incontriamo con la realtà. Dall’incantamento di un fiore – una margherita, una surfinia, una forsytia e molti altri personaggi interpreti della botanica poetica di Bonamico – alla figura di un vecchio pescatore solitario che si attarda a distribuire molliche ai gabbiani sul molo, al venditore di rotolini di poesie sulla piazza assolata della città, ai cappellucci di paglietta tinta in nero con veletta della nonna Tina, alla tovaglia di cotone écru ornata con una pluralità di punti e di nodi della madre, ricamatrice provetta: la realtà si affolla nei magazzini della memoria della poetessa con precisi particolari di perfetta ricostruzione scenica, tale che il lettore coglie la fisionomia esatta della mondanità, e ne indovina i colori, i suoni, gli odori, in una sinergia totale dell’esperienza sensuale e razionale. La realtà rappresenta la densità della vita, il suo spessore, in una pa­rola: la sua ricchezza. E grandissima parte della ricchezza del mondo, per la poetessa, risiede nella natura, e nel­le sue manifestazioni più piccine e singolari, come il vo­lo degli uccelli, il loro cinguettio, il fascino delle erbe e dei fiori, il gioco delle ramificazioni delle singole piante, l’esplosione rigogliosa delle infiorescenze dei glicini. D’altro canto sviluppano anche fascino le manifestazioni corali e orchestrate della natura, come i panorami ma­rini cui fanno da contro altare le visioni delle Alpi e in generale dei monti, i dolci tramonti e le pallide albe. Si tratta di proiezioni in campo lungo, in cui l’obbiettivo del poeta si squaderna su un soggetto che sembra campire tutto l’universo, come esattamente avviene quando la poetessa si lascia andare a commentare le leopardiane
vaghe stelle dell’Orsa, per l’esattezza si tratterà del Piccolo Carro, e in quella contemplazione si realizza una sintesi di astronomia e di letteratura. Ma non c’è solo la natura, perché va detto che la città e in generale la civiltà nella poesia di Miriam Bonamico non solo sono sempre presenti, ma sono consustanziali alla parola stessa che il poeta adopera per esprimersi, nella piena consapevolezza che se fosse figlio solo della natura l’uomo in nulla sarebbe diverso dagli altri vegetali e dagli altri animali che allietano il creato – e lo rendono tragico! – con la loro presenza e con l’azione che esercitano sull’ambiente. L’uomo ha in più, rispetto agli altri esseri viventi, la terribile e fastosa coscienza di sé e della sua solitaria condizione nel creato. In una sintesi: l’uomo possiede la civiltà che si è dato come storia del cammino compiuto nei secoli. Tale cammino, agli occhi della poetessa, è rivissuto e reinventato in chiave mitica, ma non già ri­spolverando l’esempio dell’epica classica, cioè degli eroi divinizzati dall’antichità ellenica e romana. Al contrario, il mito, in Miriam Bonamico, ha una radice popolare, e quindi non nobiliare, pertanto risale al mondo mo­derno, quello successivo alla scoperta dell’America. Il mito sviluppato dalla Bonamico è quello figlio del Nuovo Mondo, cioè figlio degli ideali di libertà, di eguaglianza, di fraternità, di affrancamento dalla tirannide delle monarchie. E lo è in chiave “gaelica e femminile”, aspetti che entrambi bene si addicono alla figura di grazia e di dolcezza femminile che è l’elemento più caratteristico di questa poesia. Simbolo della rivisitazione in chiave moderna del fenomeno antico della mitopoiesi è il personaggio popolare e favolistico di Molly Malone, eroina irlandese, di dubbia esistenza storica, ma di conclamata gloria popolare, che non significa “popolana” nell’accezione di plebea e rozza, ma che significa invece “ideale del popolo, cioè modello comune e pubblico, caratterizzato da operosità indipendente e non asservita a padroni, animata da gioia di vivere”. Tuttavia, l’aspetto più importante e più fondante della “poesia civile” di Bonamico – se così vogliamo chiamare quella poesia che ha coscienza dell’umanità, dei suoi sogni di elevazione e dei suoi abissi di degrado – non si compendia nel pur luminoso simbolo di copertina rappresentato dalla procace Molly Malone, bensì è tutto racchiuso in un solo vocabolo, piccino come una pisside, ma anche immenso come il mare Mediterraneo di fronte a cui il vocabolo è nato, nel Golfo di Genova: maccaja. La radice etimologica del vocabolo risale al greco malakìa, languore, da cui il latino malacia, bonaccia di mare. Il vocabolo nasce per indicare una condizione meteorologica di ansia afosa e soffocante, tendenzialmente plumbea, oppressiva, causata dallo scirocco che spinge l’aria calda nel Gol­fo di Genova, e la schiaccia a soffoco, se il cielo incombe con nuvole pesanti di umidità, come in un palloncino di vapori trattenuto dalle montagne. Va da sé che ben presto il vocabolo ha assunto un significato figurativo di malessere esistenziale, di spleen, di soffocamento delle idee e delle voglie, di disagio della vita, tristezza e melanconia insondabile. Ancora una volta, Bonamico sceglie un vocabolo fortemente connotato in modo folcloristico, quasi a sottolineare la sua vocazione per una poesia dal dettato volutamente anti-aristocratico e decisamente popolare. Il vocabolo ha ricevuto la sua glorificazione lessicale quando è stato impiegato in una delle più belle canzoni di Paolo Conte, Genova per noi, mirabilmente interpretata da Bruno Lauzi: “macaia, scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia”. S’aggiunga che Genova è la città natale della poetessa: città sempre amata e mai dimenticata, anche se poi le vicende della vita e del matrimonio l’hanno portata a seguire il consorte nella di lui carriera dirigenziale svoltasi in altre città italiane. Genova, dunque, come luogo degli antenati e dell’infanzia, ma anche come città della storia, superba repubblica marinara, simbolo di libertà, di operosità, di fede. Ma anche simbolo di maccaja o macaia, che dire si voglia: disagio dell’intellettuale, melanconia irrisolvibile per la vita che appare impedita, imbrigliata in una linea d’ombra incurabile. L’intero libro, Scorre il tempo, esattamente come accade alla città di Genova, è in ostaggio alla maccaja, un sentimento di sconfitta che non può essere superato in alcun modo, perché si radica in quell’altra parte di noi stessi che non si riverbera nel mondo esterno, ma che resta figurata solo nel profondo. Là, come è nel caso della poetessa Miriam, possono allignare le radici di dolore e di tragica perdita degli affetti più importanti, che non possono comunque trovare alcuna forma di risarcimento neppure parziale nel mondo della realtà. Si instaura un dialogo fitto, allora, tra le voci del mondo esteriore e le voci – ma più ancora con i silenzi – del mondo interiore. Quante poesie di Bonamico sviluppano il tema del dialogo trasognato, tra immaginazione e realtà, tra evocazione del ricordo e presagio del futuro! Si tratta di un discorso condotto ai bordi del surreale, dunque, proiettato sull’ala del sogno o quanto meno del miraggio ricostruito a occhi aperti, in cui gli interlocutori prediletti sono la figlia perduta ovvero il grande compagno della vita, sempre presente, anche nei sogni più dolcemente irreali.

Sandro Gros-Pietro

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