Prefazione

Dopo migliaia di anni che hanno prodotto un incalcolabile numero di opere poetiche non siamo riusciti ancora a trovare una risposta convincente e univoca all’interrogativo ‘cos’è la poesia’. Quando qualcuno ce lo chiede rispondiamo descrivendo stati d’animo che la provocano o effetti che la caratterizzano, ma la poesia resta sempre in un alone misterioso, pur accompagnandoci dalla mattina alla sera, come dice Pavese della morte. A un ragazzo che mi poneva la domanda ho risposto citando i versi dell’Antologia di Spoon River fatti propri da Fabrizio De André nel canto de Il suonatore Jones: “In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità; / a me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa”. La mia citazione spostava ovviamente l’accento dalla definizione della poesia alla sfasatura nella percezione della realtà operata dal poeta. Era un modo per eludere una più lunga spiegazione, ma a ben pensarci se l’exemplum citato non porta nulla all’alveo della poesia, è sicuramente valido per il riconoscimento del poeta la cui interpretazione del quotidiano e della storia non è mai neutra e obiettiva. A questo corollario non sfugge neppure Giuseppe Oreto: qui si metterà a fuoco qualche elemento della sua sintassi poetica.
Scampoli non è un’opera prima. Oreto ha già pubblicato tre raccolte, una nel 2011 dal titolo Figure, ombre, bagliori (= Figure), l’altra nel 2014, Domina, donna, dono (= Domina): tra le due un piccolo nucleo di poesie ruotanti tutte intorno alla sua professione di cardiologo: Le voci del cuore (2012). Il poeta umanizza nelle 19 patologie cardiache descritte la cruda funzione diagnostica delle macchine, chiosando i verdetti strumentali con affondi nella sofferenza; il ritmo diastolico e sistolico del cuore fa da sottofondo a versi che affidano alla schietta semplicità di poche parole l’indicazione dei sintomi e i segni evolutivi di ogni singolo disturbo. Alcuni fili di questa singolare proposta poetica si annodano pure con Scampoli: cito solo un incipit memorabile (“La malattia dà nuova dimensione / all’esistenza, svela che lo scorrere / incolore dei giorni era la vera / felicità”).
Il breve opuscolo costituisce una parentesi in un romanzo d’amore prevalente sul piano tematico che si inarca tra le prime due raccolte, tracimando nell’ultima. È vero che nella compagine fanno capolino la vena religiosa e la componente sociale, ma sono linee che finiscono col dare vigore all’interesse principale, perché omnia vincit amor (“L’amore è senza tempo […] non lo vince / il dolore l’assenza la stanchezza. / […] ed è luce del mondo perché impresso / reca il volto di Dio e il suo sorriso”). Un canto solo si dispiega in tutte le sillogi, tra mille sfaccettature di tempi e di luoghi, di ricordi e di presagi, di sperimentazioni metriche, è il canto per un unico grande amore, per la sposa fedele e inseparabile. Proprio perché i versi sono il diario frantumato di un pellegrinaggio d’amore nelle stagioni della vita, articolati come i versetti di un grande salmo, le tre sillogi costituiscono una trama continua e organica, nella quale un’idea di base si arricchisce di sempre nuove agnizioni, con la funzione di confermare e potenziare le lodi d’amore. Reco un esempio delle interconnessioni tra le varie raccolte. Nel piccolo proemio di Scampoli si dice: “se a volte traspare / un’armonia sul foglio ha il sapore / della castagna, cui somigli”. Il paragone con la castagna, piuttosto ellittico, diventa chiaro solo se gli si accosta una minuscola lirica di Domina, dove il raffronto tra la castagna e la donna amata è scandito nei dettagli.
I fili che continuamente si annodano e si sciolgono nei tre volumi sono quelli dell’eterno innamoramento e della poesia, ma a ben guardare non si tratta di due diverse prospettive, bensì della feconda interrelazione di due realtà speculari: la donna è la musa, quindi non c’è differenza tra donna e poesia. Un po’ quello che si verifica in molti canzonieri della letteratura italiana, a partire dallo Stilnovo.
Il titolo Scampoli segna un’innovazione rispetto ai precedenti, ai due tricola si sostituisce un solo termine che scarnifica il ritmo settenario dei nomi delle precedenti raccolte. La parola ‘scampoli’ è d’incerta etimologia: secondo Cortelazzo-Zolli deriva da ‘scampare’ o dal provenzale escápol, da escapolar ‘sgrossare, tagliare’, che si rifarebbe a un latino tardo ‘capulare’. Il termine, come si chiarisce in una lirica, è una metafora delle parole di poesia che “appena nate / sembravano capaci di volare / verso il cielo”, rivelando però quasi subito “il colorito incerto, l’andatura / zoppicante”. Pensando ai “pezzetti di tessuto / a basso prezzo”, il poeta prende la sua decisione: “le metto a nuovo adesso / nella vetrina, e spero che qualcuno / le scelga, anche se è fragile la trama, / e toccandola appena si sfilaccia”. La parola ‘scampoli’ non è molto usata nella poesia contemporanea: la trovo nel Diario del ’72 di Montale nel senso di ‘resti’ (“giorni, giornali, cimiteri, scampoli / di ciò che non è più”).
Come già in Figure e in Domina, il metro prevalente di Scampoli è l’endecasillabo sciolto, il cui uso non è però rigido; Oreto si sottrae all’uniformità evitando l’eccessiva regolarità degli accenti; ma spiccano alcune composizioni in settenari (ad es. Guardandoti talvolta), in novenari (Fragile voce), una in doppi settenari (La mano) e una in doppi senari (Favola); conclude il volume una corona di sette sonetti, con rime diverse nelle due quartine, etichettata col titolo Luce oscura: un po’ alla maniera di Giorgio Caproni. La compresenza della metrica tradizionale in un sistema dominato da soluzioni ritmiche ha forse l’obiettivo di creare un contrasto, anche ideologico, con le rimanenti poesie impostate su diverso registro. Questo è evidente con i sonetti che hanno natura politica, dedicati, ognuno, a sette sciagure morali della società: la situazione della giustizia, dei palazzi del potere, della disoccupazione, della crisi scolastica, della prostituzione e della droga, del gioco d’azzardo. Il poeta non ha ricette risolutive per questi mali dilaganti, ma affida in genere agli ultimi versi dei componimenti la sua gnome, la sua icastica riflessione: ad es., per il venir meno della cultura (“e un frastuono assordante ormai circonda / la voce eterea della poesia”) e per la scomparsa del­l’amore (“Pure un tempo qualcuno già era apparso / sulla terra a portare la sua luce”).
Analogo nelle tre sillogi l’uso della punteggiatura, in genere usata in modo ortodosso, a volte del tutto assente. Nell’evitare l’interpunzione il poeta vuo­­le far confluire in un vortice di pensiero immagini incalzanti, mescolanza di suoni e di colori; si analizzi ad es. Sinfonia:

                    il ficodindia antico gialloverde
                    il marrone del tronco i fiori rossi
                    dell’oleandro il grigio delle pietre
                    il verde tenue marezzato appena
                    di bianco del ficus l’azzurrino chiaro
                    del Tirreno il fucsia dei gerani
                    il rosa delle ortensie i fiori gialli
                    dell’hibiscus l’arancio delle fresie
                    il costume violetto tuo che copre
                    il bianco della pelle e quasi appare
                    dolce di miele sotto il sole
                                                            sono
                    suoni di settembrina sinfonia
                    che ascoltano oggi gli occhi a Tarantonio

È chiaro che il procedimento mira a creare una dinamica sinestetica (ricezione visiva e auditiva di suoni e colori mischiati insieme dal sole di settembre). Il vagare dei versi nello spazio senza segni interpuntivi consolida e rafforza l’intensità della percezione.
La proposta artistica di Oreto è soprattutto orientata nei confronti del suo oggetto/soggetto d’amore; in genere si profilano monologhi rivolti a sé stesso o per lo più a un unico silenzioso destinatario, la cui identità è facilmente intuibile; rappresentava molto bene questa dinamica un distico di Figure (“Concentrare tutte le parole / di questo libro in una sola: tu”). Più esplicitamente il poeta scrive in Scampoli: “Un attimo ti resta / prima del buio: una sola sillaba / ti è concessa, e scrive la tua mano / il nome della donna che hai nel cuore”. La sillaba (non in accezione grammaticale) è Pia, un nome sulle cui qualità intrinseche il poeta indugia:

                    Il nome. E subito colpisce l’occhio
                    e la mente lo sguardo, la bellezza,
                    la compassione, il soffrire con l’altro
                    dividendo la pena, sì che sembri
                    quasi letizia, la pietà, l’amore
                    che appena svela il gesto, la preghiera
                    muta sul volto lucente, la rosa
                    offerta in dono. Non t’ho mai amata
                    come stasera.

Una corolla di significati i cui petali sono staccati uno a uno; se si pensa a quanto sia difficile tradurre in Virgilio l’aggettivo pius attributo di Enea, non sorprende certo lo sforzo semantico qui esperito da Oreto.
La prepotenza con cui si accampa il pronome di seconda persona (e il connesso aggettivo possessivo) praticamente dappertutto nel canzoniere perpetuo di Oreto è un forte segnale che sigilla anche i confini di un genere letterario: le poesie non sono che lettere d’amore, nelle quali l’argomento principale è costituito dalla laus della donna amata, scandita attraverso lampi fulminei o brevi ragionamenti, depositata lungo ogni possibile ansa di emozionalità che l’universo quo­tidiano può offrire. Un sonante ruscello di versi rivolto sempre alla stessa donna, sposa, madre, compagna. La storia d’amore si organizza in una struttura epistolare, dunque, che è anche una agenda delle più minute sensazioni, al tempo stesso esegesi e contrappunto degli eventi. Le gesta della donna non hanno il fiato epico de La camera da letto di Attilio Bertolucci, ma sono piuttosto affidate a una chiave essenzialmente lirica: Oreto fissa momenti salienti della giornata, con attenzione marcata verso il cromatismo della luce e del buio, il diapason dei suoni, verso particolari in­somma capaci di pietrificare l’attimo, perpetuare reazioni sentimentali provate in circostanze di armonia o disarmonia; non è perciò una rassegna di fatti o di notizie, quanto la mappa di piccoli avvenimenti dello spirito ad alta temperatura emotiva, consegnati alla carta subito o recuperati nel ricordo.
Un gruppetto di poesie orientate sulla linea del sacro e del vangelo è strutturato sotto il titolo Verso l’isola promessa: anche questo continua un racconto aperto in precedenza e, come già accennato, non in contrasto col romanzo d’amore, perché si tratta di itinerari convergenti.
La ricerca del suono e del colore nell’elemento base di ogni discorso poetico, la parola, anzi la sillaba, della quale si studia l’effetto evocativo fin dalla sua prima fonazione, in certo senso mette nelle mani del poeta al tempo stesso uno spartito e una tavolozza di colori adatti a somministrare gli ingredienti della costruzione lirica. Poesia, musica, pittura. Tre arti che vivono in simbiosi nella poesia di Oreto, dilatando costantemente i propri confini, nella tensione a una sinestesia integrale. Ecco il report della ritessitura interna di un evento musicale:

                    Nell’ultima sonata di Beethoven
                    incomincia il secondo movimento
                    sottovoce, è una scarna melodia.
                    Ma a poco a poco, nelle variazioni,
                    la materia diviene incandescente
                    e i suoni ti trascinano lontano.
                    Non sei più sulla terra, la sorvoli
                    sempre più in alto, e quello che sembrava
                    il culmine è il punto di partenza
                    per ascendere ancora.
                                                     Poi si placa il tumulto,
                    si muta in mormorio.
                    A quattro mani, senza pianoforte,
                    l’opera centoundici, tu ed io.

Il rapporto musica/parola si insinua di continuo (“la parola / trasmigra e si riversa in melodia / sommessa”), ma ugualmente quello della parola con la pittura. Un significato speciale hanno i versi di Guernica da Domina. Oreto si avvale del celebre quadro di Picasso per definire i contorni della creatività del poeta: questi è affacciato alla finestra, “cercando / di costringere in serie di parole / la vita. L’intenzione / è dipingere oltre le apparenze / l’anima delle cose, rivelare / panorami sommersi eppure prossimi”. Il poeta deve mettere ordine nel mosaico nascosto, ricostruire l’unità del quadro, e il disordine apparente di Guernica si presenta come il rovescio della realtà che chi coglie i nessi arcani della poesia deve saper rendere leggibile, perché il suo compito è di arrivare scavando all’anima delle cose, quella che i latini chiamavano substantia rerum.
Un paragrafo speciale della produzione di Oreto si delinea attraverso l’attrazione nella propria orbita artistica del mondo pittorico di Luigi Ghersi, ispirato autore messinese di quadri e affreschi, la cui cifra principale è il forte collegamento col mito, la storia e la letteratura della sua terra: il poeta ne possiede una piccola collezione. In Figure e in Domina sono diverse le liriche che fanno rivivere le tele del maestro siciliano (addirittura in Domina e in Scampoli due immagini di Ghersi adornano le copertine). Per questa prospettiva importante è in Figure la Meditazione su due quadri di Ghersi. Si tratta di una syncrisis tra due paesaggi, uno diurno e uno notturno (“A sinistra la notte” […] A destra il giorno”) e il poeta si sposta incantato dall’uno all’altro, desideroso di tornare nel giorno, ma fatalmente attratto dal teatro della notte; vale la pena di rileggere il passaggio centrale:

                    Ma ritorna lo sguardo nella notte
                    e comprendi: il concerto in La minore
                    di Mozart è intessuto sulle pause
                    non sulle note, ed i suoni traspaiono
                    come dentro la nebbia uccelli diafani.
                    La tua musica ormai è fatta solo
                    di silenzi, il disegno quasi specchio
                    ti restituisce immagine in catene.

Qui non solo è notevole l’intreccio poesia/pittura/musica, un Leit Motiv per Oreto, ma anche i modi con cui le tre arti si combinano, le immagini che veicolano (il poeta è sollecitato dalla tela del notturno con al centro un tavolo sul quale c’è un clarinetto e uno spartito insieme col disegno di uno dei prigioni di Michelangelo per la tomba di Giulio II). Il rapporto di Oreto con Ghersi andrebbe approfondito: forse non è senza significato che anche il pittore messinese prevalentemente presti nei suoi quadri il volto della moglie alle figure femminili.
Insieme con le laudes dell’amata, peculiarità dei versi di Oreto sono le frequenti dichiarazioni di poetica; non si tratta di aperture teoriche, quanto di rapidi cenni, metafore, fasci di luce improvvisa sul mondo della creatività artistica. Diffusi in tutt’e tre le raccolte, si ha la sensazione che sempre più questi segmenti si vadano organizzando in sistema: tra il 2012 e il 2014 un gruppo di poesie di Domina si riconosceva nel titolo L’anima delle cose, sulla cui valenza ci siamo già soffermati. I termini con cui il poeta parla dei suoi versi sono soprattutto “sillabe”, “parole”; le sillabe rinviano a una tradizione illustre novecentesca da Montale a Quasimodo e oltre: direi che nella versificazione coesistono le “storte sillabe e secche come un ramo” di Montale con le sillabe segretamente nutrite da Quasimodo, forse più vicine al mondo del poeta cardiologo. Oreto è alla ricerca della sillaba ardita per rivelare lo splendore del corpo della donna amata. Tutta una serie di brevi liriche tratteggia in Scampoli la fisionomia di queste “sillabe” o “parole”, e sono quadretti in cui affiora il senso di labilità delle cose, il ruolo del poeta di interprete della realtà col cannocchiale rovesciato (egli definisce i suoi versi come “nati senza progetto, / generati dall’ansia di fissare / in parole ed in sillabe i riflessi / interni degli eventi e insieme i suoni / degli istanti e dei giorni”), perché la poesia “nasce scrutando il mondo / attraverso una lente che rivela / il profilo nascosto delle cose”. Sillaba suono e colore si amalgamano fin dal principio; e la melodia va al di là del rumore della parola, perché “resta ancora un’eco / lieve che si riverbera nell’aria”). La parola “non è fatta di segni […] / ma di suoni e colori, e va cantando / sottovoce: tu ascoltala”. Esemplare mi pare il quadretto Nell’attimo:

                    una voce un’immagine un rumore
                    un sorriso la forma d’un oggetto
                    un mormorio di vento nella notte
                    sono le note della partitura
                    che stai scrivendo
                                              muove la tua mano
                    sul foglio l’ansia di accostare i suoni

Grande impegno pone Oreto nel definire la se­meiotica della poesia. Da Scampoli e dai volumi precedenti non emerge alcuna ars poetica, ma s’impone forte il tentativo di fissare il momento creativo, l’approdo del segno sulla carta, i colori e i timbri che lo ac­compagnano; la scrittura non è mai agevole (“sopra il foglio martoriato spuntano / sillabe come rovi, dissonanti / cancellate e riscritte, ombra distorta / del de­siderio d’incontrarti e amarti”); alla poesia ci si avvicina per approssimazioni progressive col volo alto del­le metafore; nel suo nucleo, come in un recinto sa­cro, non si riesce assolutamente ad accedere. Per questo non è contemplata per il prodotto poetico la possibilità di una traduzione: si può solo recuperare un senso sommario, ma non i tratti autentici di un’intuizione lirica: “vedi i gesti ma perdi il chiaroscuro”.
Resta da dire qualcosa sui legami di Oreto con la tradizione letteraria. Egli li addita con consapevolezza: “Nelle mie note echeggiano gli accenti / che al­tre voci più alte hanno cantato”. Anche a un primo approccio si colgono spesso memorie di poesia allusive più che esplicite, che rivelano un’ampiezza di letture non comune. In proposito mi sembra particolarmente istruttiva una lirica di Domina, che descrive il suo Leggere poesia:

                    Leggere poesia, in fondo, è quasi
                    analizzare un mondo inesplorato
                    con la lente, per coglierne i segreti.
                    Scopri così una fila di formiche
                    affaccendate: una porta un carico
                    pesante, mentre un’altra corre lieve.
                    Nere come l’inchiostro, risplendenti
                    alcune, specchi sfolgoranti al sole;
                    altre fuggono rapide: scintillano,
                    ma dura solo un attimo il bagliore.
                    Ciascuna ha il proprio suono: come tessere
                    d’un mosaico disperse, all’improvviso
                    si riuniscono legate da un filo
                    invisibile, trasformate in musica
                    che affascina l’orecchio e turba il cuore.

È chiaro che qui si stanno facendo i conti con la tradizione. Le formiche non sono che l’allegoria dei poeti che si affaticano nella costruzione dei versi; i loro prodotti contribuiscono al consolidamento della civiltà umana: è la funzione sociale dell’atto poetico che va in prima linea. Il paragone con l’inchiostro per gli animaletti che si compongono e si scompongono a mosaico nello scacchiere delle operazioni provoca un immediato accostamento alle lettere dell’alfabeto che si legano in sillabe e in parole. Movimenti, colori, suoni: nel popolo delle formiche Oreto intravede e tratteggia una compiuta metafora della poesia.
La tradizione è un bagaglio ineliminabile per qualsiasi poeta, è la memoria che aiuta il configurarsi di nuovi sistemi, il fresco zampillo che irrora qualsiasi nuova creazione, è l’oracolo che incoraggia e giustifica ogni scrittura. A questo schema non si sottrae la poesia di Oreto, ma è difficile trovare in essa scoperte riprese, calchi evidenti: piuttosto nei versi si instaura di frequente con l’uso di lessico evocativo un colloquio ricco e fecondo con molti precedenti poetici della letteratura italiana. Se talvolta veri e propri intarsi da autori anteriori si riscontrano, sono talmente consustanziati col nuovo sistema da passare quasi inosservati. Tale è il concetto espresso nei versi “Oggi possiedo / solamente quel poco che ho donato”: esso si rifrange qua e là nella raccolta ed è perfettamente motivato nelle ragioni di una poesia che da sempre ha indugiato sui flussi del dare e dell’avere. Non incide sul senso dei versi il ricordare che “Io ho quel che ho donato” era uno dei motti prediletti da Gabriele d’Annunzio, il più usato negli anni del Garda, presente perfino sulla porta principale del Vittoriale (l’origine del motto è nel De beneficiis di Seneca, come ha indicato Scevola Mariotti).
Una poesia quella di Oreto paragonabile a un puzzle di frammenti che anelano a ricomporsi in un assetto unitario, per riordinare il mosaico della vita e della morte; si potrebbe anzi dire che quasi tutti i testi si concatenano in un continuum lirico che travalica le singole sillogi: il volto la figura l’anima della donna amata, ma pure il volto e l’essenza della poesia, ap­pa­iono e scompaiono come raggi di luce nella nebbia, e il poeta non fa altro che seguirne le tracce, in un’ansia continua di epifanie e dileguamenti, di perdite e di riconquiste.

Vincenzo Fera

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