Prefazione

Nella poesia di Antonio Marcello Villucci convivono armoniosamente diversi orizzonti di scrittura, i quali rappresentano nel loro complessivo sviluppo l’universalità dei valori della poesia, come metodologia di ragionamento e di esplorazione sia del mondo reale sia dell’immaginazione senza confine, coltivata dalla mente umana. Non si può dire che, in tale organizzazione pluralistica del discorso poetico, Villucci intenda enunciare una gerarchia strategica delle fonti e delle ispirazioni e che arrivi ad attribuire un valore egemonico di priorità all’uno piuttosto che all’altro contenuto argomentativo esplorato dai versi. La poetica villucciana è, di conseguenza, un amalgama inseparabile di elementi compositivi diversi, quali più pregiati ed eterei, quali più ordinari e quotidiani, ma indissolubilmente coniugati fra loro a comporre l’unicità di un “discorso di arti della poesia”, che è il na­stro su cui scorre l’intera rappresentazione della vita. E la vita è un fenomeno unitario, capace di ce­mentare insieme le più dissimili componenti della realtà e della fantasia. Vi è come un filo che avvolge ovvero che svolge la totalità del patrimonio poetico: una lunga pellicola filmica nella quale sono impresse, tra realtà e fantasia, le grandi tematiche che contengono i nostri valori di fondamento, affidati alla capacità di esplorazione, celebrazione e di conservazione nel tempo svolta dalla parola. Nel caso di Villucci si può indicare una rappresentazione della realtà di tipo ebdomadario, con sette principali approdi di visione poetica, che se vogliamo possono corrispondere non già ai sette giorni della creazione, ma alle sette note musicali del linguaggio della poesia, elaborato da questo valente poeta di Sessa Aurunca: il genius loci, le estasi liriche, la bellezza della natura unita alle vestigia storiche, le immagini di vita quotidiana, il presagio della morte, il fascino della memoria, e per settimo e ultimo, l’elevazione del sogno e della preghiera. Più che sette note di intonazione del concento poetico, si tratta di altrettanti vasti panorami della mente e del linguaggio della poesia, con possibilità di ricerca delle radici storiche, allignate nei precordi della nostra civiltà. Il genius loci è da intendere nella significazione di entità naturale e soprannaturale che è collegata a un determinato luogo, il quale si rinnova indefinitamente nella temperie dei tempi e delle vicende umane, sempre ritrasmettendo alle persone che vi vivono gli stessi sentimenti di magica immedesimazione e di profonda appartenenza. Ecco allora, che la poesia Sulla terra degli avi racconta le caratteristiche del genius loci, in parte naturali e in parte derivate dall’architettura umana, che ha modificato con la civiltà il luogo originario: “Sulla terra degli avi / levammo una lastra / con intreccio di travi e di paglia / su base in cerchio di pietra, avverso la pioggia / e il sole cocente. // Nel raccolto non mancarono verdure / e frutta stipati in barattoli / per dolci da riporre entro la madia / tra panni di tela per serbare / più a lungo gli antichi sapori”. Dedicata alla descrizione dell’architettura rurale è la bellissima poesia Da un dagherrotipo ingiallito: “Da un dagherrotipo ingiallito / riemerge la vecchia cucina dei nonni, / un quadrato tra muri in mattoni / con gratelle in ferro sulla fiamma a carbone / per costine d’agnello, tegami di creta con manici ad ansa / per il soffritto di maiale”. La poesia diviene così anche ricostruzione degli ambienti d’epoca passata, di abitudini, di cibi, di odori, di suoni, di canti, di ricorrenze, di abiti e fogge del vestire. Un aspetto strettamente collegato al genius loci è la funzione memoriale svolta dalla poesia di Villucci, grazie alla quale si mantiene viva nella mente la storia quotidiana delle generazioni che ci hanno preceduto e che hanno vissuto negli stessi luoghi o addirittura nella stessa casa in cui vive l’Autore o vi ha vissuto in passato. In altri casi, invece, la funzione memoriale serve a ricordare momenti di tensione drammatica del quotidiano, piccole tempeste in un bicchiere d’acqua, tratte da immagini di vita, che hanno sfiorato inopinatamente le dimensioni della tragedia, ma che poi si sono risolte in positivo e sono rientrate nei ranghi del rassicurante andamento consuetudinario dell’esistenza, come si legge nella poesia Per la mia ultima nata: “Ti perdemmo in un attimo distratto / mentre seguivi un volo di farfalla / dalle ali d’oro / lungo il bagnasciuga della spiaggia / per tener dietro ad un sogno. / Lanciammo al megafono il tuo nome, / le tue sembianze, il tuo panno rosa. / Rientrasti solitaria sui nostri passi / delusa per averti rapito il cielo / la pavonia nell’azzurro / con i tuoi sogni da bambina”. Non possiamo fare a meno di vedere con gli occhi della mente questa bimbetta, figlia ultimogenita del Poeta, la quale insegue gioiosa e incantata il volo di una farfalla e inavvertitamente si allontana dall’attenzione dei genitori, che subito vanno in affanno e già patiscono la tragedia di avere smarrito la loro piccina, quand’ecco che ella ritorna da loro, ma ancora delusa perché la farfalla colorata che inseguiva è svanita nel cielo azzurro: quanta dolcezza memoriale c’è nel rimarcare quest’episodio apparentemente banale, ma così esemplare nel dimostrarci la fragilità dell’esistenza e l’alea improvvisa del rischio a cui la vita di noi tutti è sempre esposta! In altre occasioni, le immagini di vita riguardano momenti di grande serenità interiore, di dolcezza e di posatezza, nella descrizione dei rituali dei gesti ripetuti della madre, affaccendata nello svolgimento delle faccende casalinghe o nella cura dei figli e delle figlie. Anche la figura del padre, divenuto centenario, è sempre presente nella ricostruzione delle immagini di vita quotidiana, così attorniato dalla devozione e dall’affetto memore e pertinace del Poeta, che ritrova nel vecchio genitore il conforto e la rassicurazione della sua origine e del suo futuro destino. Vi è sempre in Villucci, inoltre, una componente lirica di estasi per la bellezza incantatrice della natura, il fascino delle albe e dei tramonti, il silenzio della notte, lo splendore del sole accecante, il verzicare degli alberi ai lievi refoli d’aria nei meriggi della siesta, come si legge in Nelle sere d’estate: “Nelle sere d’estate / s’aprono vecchie serrande / per un fresco nuovo / sulla vecchia piazza / orlata di ombrosi alberi. / Sotto vecchie lanterne / giovani coppie si scambiano vezzi. / Tra i raggi della luna / la campana sul fastigio della torre / smuove i tocchi della mezzanotte.” Molto vicino alle estasi liriche sono le tante occasioni di rimirare le bellezze della natura insieme e concordemente con l’ammirazione delle vestigia storiche incluse nel paesaggio, in quanto agli occhi del poeta la realtà del mondo appare come un miscuglio inscindibile di creazione divina e di costruzione umana, la prima si realizza nello splendore della natura e la seconda si attua nelle opere dell’uomo realizzate per il vivere civile, in modo che si manifesta una concordia tra gli intenti del Creatore e l’azione degli uomini. Un esempio di questo accordo di intendimenti fra il divino, espresso dalla natura, e l’umano, rappresentato dall’architettura degli edifici, lo troviamo in Ville vesuviane: “Queste dimore signorili / hanno freschezze soavi / per gli spazi che dilagano / tra portici e terrazze / sulla scenica mole del Vesuvio: / la policromia dei marmi / gli intarsi si legano / ai festoni di fiori / su archi trionfali / con puttini dorati reggistemma. / Una rampa d’invito apre ai giardini / dalle gaggie profumate / dai boschetti con rami arditi / tra palpiti d’amore.”
L’insieme di queste espressioni differenziate ma armoniose di poesia, nelle loro realizzazioni più alate, sortiscono in un dettato poetico in cui la poesia si trasforma in invocazione diretta verso il cielo e diviene allora autentica preghiera, quasi pronunciata o sussurrata a mezza voce, talvolta anche in modo colluso e confuso con il sogno, come se fosse una rivelazione fatta ad occhi chiusi, cioè una visione che sopravanza la vista oculare degli oggetti reali, e che si riconduce, invece, alla raffigurazione mentale di entità metafisiche, come si può leggere in Tu sei il mio Signore o in Padre di misericordia. Questa dimensione sospesa tra sogno e preghiera, sovente s’invola sul tappeto magico del tempo e riconduce il Poeta alla dimensione del mito, alla nominazione di grandi personaggi dell’antichità romana o ellenica, figure eroiche della mitologia, soventi divinità per lo più benigne, ma talvolta anche qualche eroe sciagurato o addirittura sacrilego per il suo ardore di librarsi al di sopra della mondanità e riempirsi di luce, come accade nel caso di Icaro. D’altronde, al lato opposto, in questa continua giostra caleidoscopica che è la poesia pluralistica di Villucci, non mancano gli eroi o i grandi personaggi dei giorni nostri, essendoci fra l’altro anche uno specifico encomio rivolto a Sergio Mattarella, per celebrarne la sensibilità umana e l’alto impegno civico e politico. E in tanto profluvio di lodi per la vita, non può venire a mancare la grande antagonista della vita stessa, cioè la Signora in nero, la Morte, che con il suo falciare le vite giovani o vecchie che siano, in modo naturale o attraverso la disgrazia dei terremoti e lo sfascio di intere città e paesi e contrade, come accadde ad Amatrice, sempre rinnova e sempre ravviva l’eterno ciclo di Proserpina, la primavera che sboccia e l’inverno che ci fa ricadere nell’Ade. La visione della morte, in Villucci, è anche un presagio, un avvertimento, un segnale di compresenza e di vicinanza che è cogente con la vita stessa, è un luccichio sinistro che improvviso balena nel grande splendore ristoratore del giorno: ecco, d’acchito s’adombra la luce e inopinatamente scocca il dardo di avvertimento che la morte è in agguato, e l’uomo dovrà sempre tenerlo a mente.
La poesia di Antonio Marcello Villucci è una lirica melodiosa basata sulla descrizione dei luoghi natii, interpretati nella profondità del loro doppio significato di doni del Creatore e di trasformazioni creative realizzate dalla civiltà, con l’intento di fare emergere la volontà di congiunzione e di appartenenza dell’azione umana a un disegno di superiore finalità già presente nella mente di Dio. Ne deriva che ogni aspetto di vita umile e quotidiana, per quanto ordinaria possa apparire, in verità si illumina di un riverbero di divinum che lascia trasparire la densità, lo spessore e l’alta dimensione della finalità destinale della creazione, che continuamente si rinnova, per prodigio d’amore.

Sandro Gros-Pietro

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