Del mistero dei versi, all’ombra della torre campanile

Stradella. Ovvero un “Comune di 11.559 abitanti della provincia di Pavia in Lombardia. Si trova nell’Oltrepò Pavese, parte sulle ultime propaggini collinari, parte in pianura. In questo punto gli Appennnini toccano l’estremo limite settentrionale e si avvicinano moltissimo al Po, cosicché la Pianura Padana a sud del fiume si restringe, in un corridoio detto Stretta di Stradella” (fonte: Wikipedia).
La Poesia. Ovvero “l’arte (intesa come abilità e capacità) di produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o altri tipi di restrizione…” (fonte: Vocabolario Treccani).
Bruno Civardi: ovvero insolito e appassionato cultore delle Belle Lettere, alle quali continua a prestare i propri servigi, nonostante avrebbe potuto accontentarsi di uno stipendio da professore, prima, e di una meritata pensione, poi.
Stradella, la Poesia e un Letterato (certo, un letterato: in un mondo in cui l’orgoglio e, spesso, il potere è degli illetterati, non provo pudore a usarlo, questo termine). Sono questi gli ingredienti del presente volumetto (mi piace il diminutivo, vezzo ottocentesco per affermare l’esatto contrario). Il titolo, poi, è una provocazione: Paese di Poesia. Ma, esimio professor Bruno, si tratta di Stradella? Questa Stradella, che viviamo oggi, è o è stata davvero terra di poesia? Peggio, di poeti? Ma chi? Dove? Quando? E se Stradella non è un paese di poesia, lo potrebbero essere Broni, Casteggio, Voghera, forse Melbourne? Il mondo, un paese di poesie? C’è poesia nei ghiacci della Groenlandia, che si sciolgono per le emissioni delle fabbriche di future inutilità o nei mari, che soffocano nella plastica, buttata poco prima di aver letto queste pagine?
Dove si nasconde, dunque, in questo tempo o in altri, la poesia a Stradella, in questo ovunque senza più metrica e sentimento? La domanda è inevitabile: poi, però, trovi le risposte. Sfogliando le pagine lungo il percorso tracciato dall’autore.

La poesia è soave bisbiglio,
è sibilo e sospiro,
che fascia di dolcezza
il cuore.

Maria Margherita Rizzi, in arte Ritù, la metteva così. Lei, nata prima che arrivasse il secolo breve e morta un attimo dopo il crollo del muro di Berlino. “Soave bisbiglio”: le parole, per arrivare al cuore, devono avere, secondo questa signora stradellina delle rime, il peso di un sussurro. Quante sono, invece, oggi, le parole che, con il peso di un urlo sgraziato, dai social si fermano alla pancia?

Adesso gli uomini sono ultramicroscopici
e abitano il granello della terra volante
fra gli astri diventati giganti remoti di non
misurabili fiamme…

Pino Masnata era un chirurgo, ed era poeta. Era un folle. Un futurista del dopo Futurismo, di quelli che erano ancora convinti, seconda guerra mondiale arrivando, che la Nike di Samotracia fosse ben poca cosa rispetto a un’auto sfrecciante con il ritmo della mitraglia. Marinetti, mitraglie e motori: Pino Masnata da Stradella stupì proprio il vate del Futurismo, ovvero di quel ribelle e ribollente coacervo di pensiero-forma-figura-scultura-parola-suono. Pino Masnata stupì Marinetti creando poesia da sala operatoria. Lui, medico in viaggio tra garze, sangue rappreso e versi non versi. Prosa con la metrica di emozioni forti o, forse meglio, poesia con la prosa della sofferenza. Credeva il chirurgo di esorcizzare così la morte che lo sfidava? Forse no, forse ne era soggiogato, affascinato. E, in questa fascinazione, nasceva nuova letteratura e un giudizio definitivo su ciò che siamo.

Il buon professore (scusami, Bruno, l’amichevole confidenza), però, non ci abbandona, infreddoliti e preoccupati, nel gelido fatalismo cosmico che viene percepito anche da questi colti e illuminati stradellini. Il Paese di Poesia ci regala, infatti, Angiola Maria Portaluppi: lei, “Figlia del Cosmo”, che presentandosi dice:

“Io sono sorella del fiore,
del sasso,
della stella”

lei che esalta la necessità di un ritrovato rapporto con la natura, pur conoscendo bene i rischi delle umane scelte: spettacolare e folgorante, in questo senso, è la poesia in dialetto introdotta in questa antologia poetica, Stravacamént.
Non si può, comunque, perdere, di vista la precarietà di ciò che siamo.

Non c’è compagnia: andiamo
coi paracarri bianchi,
allineati e stanchi…

Così scrive Ugo Magnani, che era in grado di produrre denso pensiero filosofico usando come metrica i settenari e come lingua il dialetto. E siamo sempre a Stradella.Stradella, paese di poesia. Tutto finito? No. È l’autore stesso, Bruno Civardi, ad antologizzare (brutto termine che, però, non consuma spazio) il suo fare poesia. Bella mossa. Inevitabile. Opportuna. Senza poeti contemporanei che paese di poesia sarebbe Stradella, oggi? Dopo essere stata, e ancora conosciuta “città della fisarmonica”, si scopre – o si riscopre – infatti, grazie alla ricerca antologica e poetica di Bruno Civardi in un’altra identità. Dalla musica al suono dei versi: quelli dell’autore stesso inclusi. Un viaggio nel viaggio, tra sogni di gioventù e mazzate del destino; ma con un verso, tra i tanti, che ha la potenza di una ancestrale benedizione, sul volgere di un tramonto che non esclude una nuova alba:

E mé nòna la dzéva: “Âncâ stâsìra
l’è gnìta l’ura, o fiâ, d’andà a durmì.”

La nonna di Bruno. La nonna migliore possibile, in un Paese di Poesia. Quasi quasi, Bruno, mi hai convinto.

Fabrizio Guerrini

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