Prefazione

Quand’è che un autore si accorge di essere divenuto valore, sostanza, corposo bene per le nuove generazioni equivalente a un patrimonio naturale o culturale che va tutelato affinché possa conservarsi nei secoli avvenire? Le Piramidi, il Gran Canyon, Venezia, i Sassi di Matera, la Reggia di Caserta, la Reggia di Versailles, i Palazzi imperiali delle dinastie Ming e Qing, il Centro storico di San Pietroburgo, il Centro storico di Napoli, La Scogliera dei Giganti della costa nordirlandese, il Vallo di Adriano, la Muraglia cinese, l’Acropoli di Atene, le Rive della Senna a Parigi, la Piazza Rossa di Mosca, la Cattedrale di Chartres nel Nord della Francia, Stonehenge, Auschwitz e moltissimi altri luoghi, bellezze naturali e architetture del passato nel mondo sono diventati Patrimonio dell’Umanità su decisione della Conferenza Generale dell’Unesco, perché rimangano visibili tesori considerati incommensurabili da consegnare a chi verrà dopo di noi per un collettivo dovere morale che va necessariamente adempiuto.
Un valido autore, dalla vita interamente trascorsa sui libri e per i libri.
Intanto, mentre pubblicava e si interessava di tanti poeti, scrittori e artisti, altri, a loro volta, scrivevano su di lui e sulla sua opera: una specie di scambio, dare e avere. Sono diversi anni, infatti, che sull’autore calabrese – poeta, scrittore, giornalista, saggista, critico d’arte, residente a Pomezia dal 1970 – si scrivono saggi e si preparano tesi di laurea.
Eppure, il suo lontano ambiente natio, del profondo Sud dell’Italia, non è stato dei migliori e non gli stava di sicuro promettendo nulla di fatidico e di meraviglioso per il suo avvenire, anzi per il piccolo Domenico, nato nella seconda metà degli anni ’30 del Novecento, la strada della vita s’è presentata subito in difficoltosa salita!

«[…] La vita in quel periodo e in particolare in quella zona dell’Italia era dura e difficile. Il poeta, la mattina prima di andare a scuola aveva alcune faccende da sbrigare. Dunque, arrivava a scuola provato dalla stanchezza. Il padre lo mandava a pascolare le pecore e lì, seduto tra l’erba ed i sas­si, “componeva poesie scrivendole sulle foglie del noce”. Si lasciava cullare dal vento e il silenzio della campagna lo aiutava ad abbandonarsi nei mari sconfinati della sua fantasia. Quando poi tornava a casa, appoggiava le foglie da una parte, ma sistematicamente le usavano per ravvivare il fuoco nel camino.» (Pag. 24).

Quest’ulteriore e circostanziata trattazione sull’esistenza e sulle opere letterarie di Domenico Defelice, della poetessa, critico letteraria, saggista Manuela Mazzola, parte, appunto, da quel lontano vissuto dell’autore calabro quando si dava importanza, per enorme penuria di tutto, anche alla più piccola cosa che la natura offriva gratuitamente come le foglie.
Sì, all’autunno, in particolare, Domenico Defelice ha sempre guardato come la stagione più attraente, più bella da vivere. «[…] Per me l’autunno è una primavera senza ubriachezza, leggermente addolcita, attenuata, quindi, temperata, mitigata. Il colore vario delle foglie lo fanno apparire una stupenda tavolozza. Il paesaggio vuol essere ammirato in lontananza, in prospettiva e possibilmente dall’alto. Ricordo che, da ragazzo, amavo arrampicarmi su snelli, flessibili ed altissimi pioppi per ammirarne da lassù il rutilante splendore. Aggrappato ai rami della dondolante chioma, mi lasciavo cullare dal vento – da me considerato sempre come l’anima della terra – e quasi intontito dall’incessante borbottio delle foglie, gli occhi semichiusi, assorbivo attraverso ogni poro quella inusuale meraviglia.» (Dalla prima risposta di D. Defelice all’intervista inserita sul finale della Tesi di Laurea alla Facoltà di Lettere dell’Università Tor Vergata di Roma, di Aurora De Luca, Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, pubblicata dall’Edizioni Eva di Venafro (IS), Anno 2016, pagg. 147).
L’autunno, secondo il pittore d’origine alemanna nato a Milano, Giuseppe Arcimboldi del periodo manierista italiano, è stato la creazione d’un approssimato profilo umano fatto coi frutti e ortaggi tipici del tempo anticipatore dell’apparente ‘morte della natura’: funghi, uva guarnita di racemi e le grandi foglie palmate, olive, zucca, patate, fichi, pere, mele, castagne col guscio spinoso il tutto partendo dall’assemblaggio legnoso d’un tino per formare il collo, nel celebre olio su tela del 1573 custodito al Musée du Louvre di Parigi. E nell’autunno l’autore Defelice ha visto sé stesso ogniqualvolta ha dovuto sperimentare le diverse fasi decrescenti della vita per poi rinascere subito dopo, calibrando sui rispettivi piatti le forze necessarie da buon Segno della Bilancia (nato il 3 ottobre) equo nel dispensare armonia, nell’appianare, nel pacificare e nel conciliare – quell’esatto equilibrio fra la notte e il giorno (equinozio) con cui principia l’autunno e il Sole entra nella Bilancia – perché ogni volta da solo (l’autore) s’è rialzato per continuare a dire le cose come stanno con le armi del verace scrittore.
La saggista Manuela Mazzola, dapprima, ha stabilito un epurato raffronto tra la figura dell’eroe troiano Enea a quella di Domenico Defelice per la straordinaria comunanza della pietas, quella congenita conformazione dell’animo di cui s’è cominciato a parlare nell’erudito mondo greco classico, di quando Enea, ad esempio, fuggendo dalla sua città in fiamme poiché espugnata con l’inganno dagli Achei, si fece «[…] carico sia del figlio sia del padre Anchise. L’eroe obbedisce sempre agli dèi al fato, mettendo in secondo piano le vicende personali come l’amore per Didone. Il motivo della pietas è molto evidente nelle sue gesta, come quando l’eroe è alla ricerca del vecchio padre e lo porta sulle spalle durante la fuga. In questo passo l’atteggiamento “pietoso” dell’eroe troiano consiste nel rispetto dei valori tradizionali quali la famiglia, la patria e la religione (pietas erga parentes, erga patriam, erga deos). La pietas è definibile come qualità universale, in quanto occupa i principali campi del vivere umano: si tratta infatti di dovere e devozione verso gli dèi, di amore e affetto, tanto per i genitori e i figli, quanto per la patria e gli amici e infine di personale clemenza, giustizia e senso del dovere.» (pag. 16).
Il gruppo marmoreo dello scultore del Barocco, Gian Lorenzo Bernini, datato 1618-’19, alto più di due metri, custodito presso la Galleria Borghese di Roma, ha riassunto non solo l’azione d’Enea originata dalla pietas ma anche le tre insigni generazioni rappresentate da Anchise Enea e Ascanio, distinte e fuse insieme dalla potenza di questo supremo fenomeno dell’animo.
Il lavoro saggistico della Mazzola va ad incrementare, ad arricchire il già ampio flabello generante il piacevole soffio che ci parla e ci continuerà a parlare delle gesta letterarie compiute da Domenico Defelice, della sua prorompente carica umanista con cui ha dato risonanza alle sofferenze degli altri, soprattutto, nei suoi scritti e non importa se il mirabile flabello, ventaglio, sia stato composto da piume di struzzo, di pavone o di foglie a raggera, perché non è stato inutile per Egli aver cominciato a vergare poesie proprio su quella sottile superficie naturale, foglia, destinata a perire o, come nel suo caso, a ravvivare le fiamme del familiare camino.

Isabella Michela Affinito, Aprile 2021

Recensioni

Non ci sono ancora recensioni.

Scrivi per primo la recensione per “Il poeta che scriveva sulle foglie”

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati