Postfazione

Come (immagino) in una olla podrida ben cucinata, così in questi racconti del “ma anche” c’è una compresenza di simboli, spesso contrastanti, ripresentati in modo apparentemente casuale e in contesti diversi dove assumono nuovi significati o differenti valenze, per combinarsi comunque in un insieme robusto e appagante, come robusto e appagante è quel piatto di origine iberica. Questa logica rivelatrice e trasformativa mi ricorda quella strutturale trovata (fra l’altro) nel mito e nei sogni da antropolgi quali Claude Lévi-Strauss, Lucien Sebag e Adam Kuper. Ancor di più, incarna la logica dell’“ovviazione” teorizzata dall’antropologo americano Roy Wagner. In tale logica, costellazioni di simboli anche antitetici si susseguono e sostituiscono l’un l’altro. Ad ogni passaggio, il significato e le problematiche di un primo simbolo vengono ‘ovviate’ da quello successivo, verbo che uso nel senso classico (inglese) di “rimosse” o “rimediate” ma anche, per Wagner, di “essere rese ovvie o comprensibili”. In queste trasformazioni, il significato di ogni simbolo non viene altresì cancellato, ma incorporato in quelli successivi, creando configurazioni frattali dove ogni simbolo ne racchiude molti (infiniti?) altri e incorpora il suo stesso opposto. L’effetto è di intimare l’ineluttabile coincidentia oppositorum di Yin e Yang, Chaos e Ordine, Male e Bene, Morte e Vita, Paura e Coraggio, o Dionisiaco e Apollineo che pensatori come Friedrich Nietzsche o, recentemente, Jordan B. Peterson e Nassim Nicholas Taleb hanno variamente esaminato nella condizione umana.
Nei racconti di Olla podrida, tali trasformazioni si articolano in una serie di temi ricorrenti. Vediamone alcuni.

1. L’ambigua figura dello zoppo
Lo zoppo compare in diversi punti del libro. Figura strana e agente di cambiamento, è connotato da anormalità e forza animale, per esempio in figure mitologiche indoeuropee di fabbri divini e non, come l’Efesto/Vulcano greco-romano o il germanico-norreno Wayland/Weland. Nei racconti di Vincenzo Moretti la zoppia è prerogativa di personaggi al contempo forti e fragili. Il faccendiere zoppicante condannato all’ergastolo è un rancoroso assassino (in Persone informate dei fatti), oppure è l’ingenua vittima del complotto di malavitosi e di insospettabili che si servono di lui per depistare le indagini e coprire il vero movente dell’omicidio (Il sogno dell’ergastolano)? In Dolfito, il gaucho don Diego, dopo una giornata di trionfo come domatore di cavalli e come ballerino, cade in una fatale tentazione, rimane zoppo, diventa una lingera e finirà povero suonatore di strada. Rambò di Valpetrosa, giovane nobile decaduto e «ridotto a grama giulleria», diventerà trovatore di corte e valoroso cavaliere e perfetto amante, ma concluderà la propria vita zoppo e divorato da «un fuoco rabbioso». Anche i due buoni borghesi marchiati da una deiezione canina finita sotto una loro scarpa, in Anosmia, mi paiono inseribili nella categoria degli zoppi che provocano la catastrofe, il passaggio dalla raffinata atmosfera mondana alla vendetta dei morti viventi. Al limite, ricordiamo che rendono momentaneamente zoppi anche i crampi alle gambe, un fastidio che colpisce, in momenti di massima tensione narrativa, sia il protagonista di Anosmia, sia il Flavio Carelli di Persone informate dei fatti.

2. Distacco e abbandono
Il distacco, un evento che spesso si concretizza con l’inizio di un viaggio che fortificherà chi lo compie, risulta altresì accompagnato dalla malinconia dei congedi e da un futuro di nostalgia che conferisce all’Eroe un di più di umana debolezza. Così è, in Dolfito, per il coraggioso Tillio Carelli calzolaio nella pampa, che vagheggia il ritorno al paese natio; mentre capita il contrario a suo figlio Dolfito, che quando lascia l’Argentina deve separarsi dall’amato cane Tabui. In Gran Pincìn, l’avventuroso nonno materno di Dolfito, quel Felice Ghietti aduso a far «mattane», che da povero pescatore di fiume in Cerreto Po finisce a lavorare e a ben guadagnare sulle paranze siciliane nella tunisina La Goulette, proprio allora inizierà a sentirsi solo e a desiderare di ricongiungersi con la sua sposa.
Ma il viaggio, se pur comporta le tristezze e le nostalgie del distacco, fortifica ed è occasione di salvezza. Così sarà per Tillio e Maddalena, che giovanissimi emigrano in Argentina per sfuggire alla povertà; qualcosa di simile succede a Michele Carelli che non pensa di affiancare il padre nell’avviato studio legale in provincia, ma preferisce fare la vita del bohemien ad Augusta (a Torino), pur di riuscire nella carriera universitaria. Al contrario, nell’ultimo racconto della saga dei Carelli, suo figlio Mattia cui «non manca niente» ma che (propter hoc?) soffre di depressione con idee suicidarie, lascerà la famiglia per fuggire a Parigi, dove spera di guarire, di vivere con una compagna e di dedicarsi a un umile ma soddisfacente lavoro. In Rambò di Valpetrosa, componimento misto di storia e d’invenzione che narra la vita del trovatore Raimbaut de Vaqueiras, il giovane protagonista lascia la sua Provenza con il cuore pieno di amarezza e di risentimento, ma in Monferrato otterrà gloria e onore e amore.
Al tema del distacco (voluto o inevitabile) si può giustapporre quello dell’abbandono. In Carnevale e sorelle Cecilia fa il possibile e il meglio per assistere la madre fino al momento della dipartita, quasi volesse opporsi all’ineluttabile destino dell’ultimo congedo; mentre il marito Flavio rifugge il clima oppressivo, per lui intollerabile, della lunga e dolorosa malattia mortale che ha colpito la suocera, e abbandona famiglia e città per cercare di svagarsi in spensierata villeggiatura nella casa di vacanza in un paesino di mare, dove parteciperà a un grottesco carnevale e sarà tentato da una esaltante quanto improbabile «avventura dei sensi e dei sentimenti». Il timore dell’abbandono, l’irrazionale paura di perdere per sempre la persona amata, tipica del bambino che si è perso e cerca la mamma, diventa il nucleo narrativo di Sbagliando direzione, dove capita che, per una banale distrazione di sua madre, il figlio da poco adolescente sia assalito dal timore che lei abbia un amante e si stia recando alla stazione per salire su un treno e andarsene di casa. In Sotto il bersò è invece raffigurata una madre che punisce in modo eccessivo il suo bambino, perché ossessionata dal timore che il figlioletto inappetente e minuto possa ammalarsi, morire e lasciarla sola.

3. La festa 
Nei racconti di Olla podrida vengono spesso descritti luoghi di piacevole ritrovo e si raccontano cose che, avvenute durante una festa, rivelano la vera natura di un individuo o di una società, o diventano decisivi punti di svolta nella vita di qualcuno. Alla festa di capodanno della “gioventù bene” di «Mercate, la città del cemento, del cemento-amianto e dei frigoriferi» (Casale Monferrato), nel racconto Il perché e il percome, il protagonista Flavio Carelli non si sente a suo agio, lui «licealino» ma figlio di agricoltori; sta per andarsene quando invece incontra colei che diverrà sua moglie. In Anosmia, il concerto in Filarmonica dove l’élite locale si riunisce e poi dilania la coppia vittima della propria euforica disattenzione e del comune difetto olfattivo, è una invenzione di genere horror, ma soprattutto è una satira allegorica, sia della natura umana rivelata dalla ferocia cannibale delle grandi guerre, sia del luogo comune secondo cui l’arte e il suo apprezzamento sono indice di civiltà e di umanità. Forse casuale ma interessante è che questa rivelazione avviene proprio in un contesto legato alla musica, indicata da Nietzsche come la forma più pura di arte dionisiaca. Qui gli appartenenti alle élite, che si circondano di arte e raffinatezza si trasformano, da persone civili sedute e immobili pronte ad ascoltare ordinata (apollinea?) musica classica, a frenetici non-uomini (satiri?), morti viventi assetati di sangue e di carne umana che si abbandonano a una macabra (dionisiaca?) frenesia omicida. Pensiamo al racconto Ucronia 1962: nell’esclusivo Country Club di Nashville si tiene la festa di un rinomato College e un adolescente della buona società ha un flirt con una coetanea che essendo (forse) una vampira, trasformerà in vampiro anche il ragazzo baciato; il giorno successivo, avvenuto il disastro della guerra nucleare, saranno (forse) proprio loro, i due vampiri (una sottocategoria dei non-morti), gli unici a sopravvivere. In Beta, nella fin troppo accogliente casa di un famoso artista (al contempo pittore, con la sua associazione apollinea, e satiro dionisiaco amante di donne e di primordiali divinità e spiriti sciamanici), il protagonista (un giovane musicista-sociologo inebriato) inizia un’avventura erotica con una studentessa che si dimostra disponibile, ma poi si apparta col padrone di casa, mentre il giovane finisce con l’amico (lui pure ubriacatosi per reazione a un fallimentare approccio con una sua ex) in una biblioteca resa splendida da mobili di antiquariato e libri rari: un luogo di arte e cultura che si rivela minacciato dai tarli e crolla, uccidendo i quattro beatnik intellettualoidi dilettanti musicisti che stavano lì accovacciati (ancora un’ironica contestazione della fragile menzogna che arte e cultura apollinee siano segno di nobiltà e fonte di salvezza? O meglio, un altro trionfo del ruolo rivelatore dell’arte dionisiaca?). In Dolfito costituisce uno snodo narrativo basilare la giornata della festa nazionale argentina, che a Pueblo Abierto si conclude con il ballo in piazza durante il quale l’applaudito gaucho don Diego Moira e poi lo scozzese puritano Fingal Mac Allen cadono nel peccato e diventeranno lingere. Al contrario, in Mattia, il protagonista aspirante suicida finisce in un baretto dove si sta concludendo una modestissima festa di laurea, e proprio lì avviene l’incontro con la musica rigeneratrice e con la donna che (forse) lo salverà.

4. Prima le donne e i bambini!
Il bambino (come pure il preadolescente), in alcuni racconti di Olla podrida, è colui che vede e non vede, parla o tace, racconta cose ma ha i suoi segreti. Così Dolfito, nell’omonimo racconto, ammira le prove di forza del gaucho (il duello, il rodeo), ma poi intuirà il suo cedimento predatorio al fascino della bella locandiera; infine assisterà alla tragica morte dello Scozzese distrutto dal senso di colpa per aver commesso adulterio e fornicazione; e nel racconto successivo conoscerà e commenterà le trasgressioni del nonno “Gran Pincin”. Dolfito dunque viene a contatto con personaggi irregolari (lingere come il nonno, il gaucho, lo Scozzese), comprendendo che tutti gli uomini, anche quando paiono mirabili eroi e/o affettuosi parenti, sono segnati da limiti, debolezze, e potenziale malvagità e violenza. Per contro, Dolfito conosce anche rappresentanti di popoli indigeni sudamericani e di genti africane portate schiave in America latina, personificazioni degli Ultimi, dei “dannati della Terra” sottomessa allo sfruttamento razzista dell’ “Uomo Bianco”. Proprio loro si rivelano eroici dispensatori di giustizia (uno salvò dallo stupro la bella locandiera, l’altro è colui che rivendica libertà e dignità per i sottomessi dal sistema coloniale). Talvolta il bambino enuncia verità che gli adulti ignorano o fingono di ignorare. Come nella favola di Andersen l’incantesimo dell’invisibile e inesistente abito del vanitoso imperatore viene spezzato dal bimbo ingenuo che grida “Il re è nudo!”, così in Beta, nell’ospitale casa del ricco pittore che accoglie tipi eccentrici e «ragazze avventurose», per due volte appare un bambino e dice cose vere seppur sconvenienti: che l’auto di un ospite è un catorcio, che i due studenti invece di ballare stanno «pomiciando». In chiusura di libro, una madre affida al bambino sofferente e malaticcio un compito assai elevato: «racconterai chi eravamo, scriverai quanto di noi ti verrà in mente, il bene e il male rimasto dietro di te e dentro di te»: un’allegoria dello scrittore che, come intuì Giovanni Pascoli sulle orme di Platone, è tale anche perché un poco “fanciullino”.
A bilanciare le figure femminili negative (la Massenzio e la Sperandio in Persone informate dei fatti, le «studentesse avventurose» di Beta, la «bambolina» Beba Braz dalle molte idee storte nel Caricabatteria), compaiono in Olla podrida tante donne di valore, come le madri, le mogli, le compagne dei maschi Carelli, o la Beatrice di Rambò. In Mattia, l’ultimo racconto della prima sezione, c’è una moderna (ma messaggera di una sapienza ancestrale) “donna della salute”: la ragazza Barbara, la «demoetnoantropologa» e un po’ sciamanica taumaturga venuta dall’Isola (sicuramente, la Sardegna) che, parlandogli e facendolo partecipe, mediante il role play, degli antichi rituali della propria terra, contribuirà (forse) ad avviare il protagonista sulla strada della guarigione.

5. Gli uomini fragili
I testi raccolti sotto il titolo complessivo di Incubazioni ricordano certi libri di autori come Haruki Murakami, Philip K. Dick, Kurt Vonnegut: nella ricorrenza di caos e casualità, di fusione di vita e sogno, di realtà quotidiane in cui irrompono incubi, mostri e altri elementi magico-fantastici. Viene spontaneo riferirsi a Lovecraft (e all’acuta analisi delle sue opere da parte di Michel Houellebecq) nel leggere le violenze dei mostri (talvolta travestiti da persone normalissime), l’orrore di certi comportamenti umani e, ancor più nel profondo, la vertigine nichilista nel constatare che la vita è inadeguatezza, casualità, caos, transitorietà, male (seppur commisto a un po’ di bene) e sostanziale fragilità (confortata da qualche, fioca, luce di salvezza). Pare questo il messaggio sotteso ai racconti di Olla podrida: che si presentino vicende liete o tristi eventi, prima o poi e sempre e comunque si giunge alla stessa fine: al nulla. Scegliere di (o riuscire a) essere “qualcuno” o “qualcosa” è comunque limitante e delusivo, perché esclude la possibilità di essere molti altri “qualcuno” e di vivere molti altri “qualcosa”, come nell’adattamento televisivo di Man in the High Castle.
È l’ideologia della finitudine dell’uomo, l’unico animale che continua a vivere pur avendo coscienza della propria mortalità e della totale irrilevanza del proprio esistere. Seguitare a vivere… ma come? Fingendo che non esistano alienazione e solitudine e incomunicabilità, e impegnandosi nell’indagare su casi polizieschi, nel partecipare a feste per far conquiste, nel cercare il successo sul lavoro, risponderebbe la maggior parte dei personaggi di questi racconti. Vivendo una Fede ingenua ma appagante, ci direbbero il «licealino» Flavio Carelli o il puritano Fingal Mac Allen. Facendosi un poco più simili ai “bruti” domando animali, donne e nemici, ci suggerirebbe il gaucho don Diego Moira. Ci sono poi i personaggi che, dopo le loro sconfitte o mis-avventure, sembrano seguire i precetti esposti da Nassim Taleb nel libro Antifragile. Quelli che addomesticano la traumatica presa di coscienza della loro sostanziale fragilità, provano a trarre vantaggio dall’instabilità e dal disordine e persino dai propri errori, imparano a essere meno fragili accettando la casualità dell’esistenza, il suo bello e il suo brutto, le vittorie e le sconfitte, e restano innamorati della vita seppure consci che qualsiasi cosa si faccia, tutto sommato ben poco o nulla muterà davvero. Un atteggiamento che non è nichilismo ma che può aiutare a crescere, dando energia e coraggio. In formato minore o minimo, certi personaggi di Olla podrida mi ricordano, individualmente e soprattutto nella loro ricorsiva incarnazione frattale nella totalità dei racconti, gli eroi di molte culture antiche e contemporanee: fallibili e imperfetti, mai del tutto invincibili e giusti, strenui combattenti pur consapevoli che alla fine perderanno. Come suggerirebbe il succitato Jordan B. Peterson, le loro storie sono interessanti, non malgrado i loro limiti, ma grazie ad essi, e loro stessi appaiono eroici, non a malgrado dei loro errori e delle loro debolezze, ma grazie ad esse e alle lezioni che ne traggono. Orgogliosi di essere così, in barba al Fato, agli altri uomini e agli dei, questi eroi impugnano la “mazza del coraggio che ammazza anche la morte”, e gridano ai cieli: “Questo fu la vita? Orsù! Da capo!”

Daniele Moretti
BSc, MSc, PhD Antropologia Sociale
Ex British Academy Postdoctoral Research Fellow
e Fellow di Girton College, Università di Cambridge.

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