PREFAZIONE

Se è vero che è sempre opportuno individuare un punto da cui partire per commentare un libro, nel caso specifico potrebbe essere il Zabriskie, cioè il punto più basso dell’emisfero boreale, situato nel deserto dell’Arizona, in una depressione che sembra superi gli ottanta metri sotto il livello del mare. La valle della morte era ricca di borace e Christian Zabriskie era il direttore minerario che soprintendeva agli scavi in quel paesaggio lunare, divenuto oggi uno dei parchi naturali più suggestivi degli Usa, tra l’altro reso celebre da Michelangelo Antonioni, che nel 1970 intitola uno dei suoi capolavori cinematografici Zabriskie Point. In Antonioni, la metafora consiste nell’individuazione del punto più basso di sopportazione della società dei consumi, ai limiti della morte sociale. Raggiunto tale punto esplode platealmente il rifiuto di continuare oltre, e scoppia la ribellione. Il protagonista Mark uccide (o immagina di uccidere) un poliziotto; Daria, la sua compagna occasionale, fa saltare in aria la villa del principale (o immagina di farlo). In pratica, crollano i rapporti sociali costruiti sul benessere e sul consumismo che hanno come simbolo gli elettrodomestici. Fino qui, come bene si sa, è tutto Antonioni, con la sua critica alla società consumistica, la denuncia della progressiva alienazione dell’uomo moderno, il rifiuto di accettare la realtà e la conseguente incapacità di riuscire a distinguere tra il reale e l’immaginario; l’incomunicabilità che rinchiude l’uomo moderno in un bozzolo serico asfissiante. Paolo Clario cita compiutamente questo retroterra di riferimento culturale nella poesia Nadir, nella quale la novità consiste principalmente nell’avere sostituito l’amore verso una giovinetta da parte del protagonista cinematografico con l’amore verso un giovanotto da parte dell’io poetico. In vero, la novità non è solo quella, e consiste nella totale riappropriazione di sé da parte del soggetto che in Antonioni, invece, è volutamente estraniato da sé stesso. L’io-poeta di Clario, al contrario, si appartiene ed è in grado di referenziarsi consapevolmente con la realtà. Ma la realtà in cui si muove l’io-poeta di Clario è postmodernista e, quindi, è esplosa in una pluriespressività di contraddizioni distorcenti disarmoniche diafoniche e spinte fino ai margini dell’isteria, come è splendidamente do­cumentato nel poemetto centrale, Ludus circulatorum, che resta il testo più forte e più completo dell’intero libro, interamente dedicato all’oggetto primario del grande amore di Clario, cioè alla città di Roma. Per essere corretti nei confronti dell’autore, anziché città di Roma si dovrebbe usare la locuzione, oggi un poco pomposa, di civitas romana, per indicare quell’unione inscindibile tra il luogo fisico della città e il dominio mentale della realtà esercitata attraverso la cultura che, nella classicità, costituiva una monade inscindibile e che ai giorni nostri pare essere per sempre perduta o forse semplicemente male espressa dall’endiadi incompleta di città e cultura. Paolo Clario, scrittore così arrischiatamente moderno da fare apparire quasi superato Antonioni, per effetto di una rappresentazione postmodernista della nevrosi contemporanea che non era ancora entrata nelle corde del regista italiano, è un cultore attento e innamorato della classicità. È un frequentatore assiduo della mitologia, in un modo che non può che onorare il mitomodernismo di Giuseppe Conte e di Stefano Zecchi. È un affabulatore tragico-comico di amori e di re­lazioni umane espresse in un tono trasfigurato che non può che suscitare consensi presso poeti dal grande respiro poematico come Tomaso Kemeny. È un cantore appassionato delle emozioni con la teatralità shakespeariana e la licenziosità marlowiana che non può che suscitare il piacere della lettura presso poeti di grande densità scenica come Roberto Mussapi. La poetica di Paolo Clario ha come referente il versante mitopoietico della no­stra poesia contemporanea e deriva vigore e autorevolezza dalla tradizione all’azione e all’intreccio rappresentato come ingorgo di poiein, cioè di azioni compulsanti, di situazioni in sviluppo, di emozioni scatenate dall’accadimento dei fatti. Siamo distanti anni luce da una poesia lirica costruita per estasi contemplative o per distillazione di categorie astratte della mente. Nei versi di Paolo Clario è rappresentata la storia del mondo e non, invece, la teoria delle idee. Siamo di fronte a una concezione dantesca del verso, cioè alla forza creativa che dilava come metafora totale della vita e dei suoi fenomeni. Forza propulsiva del discorso poetico sono i magazzini della memoria, nei quali Paolo Clario ha stipato i disegni e gli arcani di tutta la storia della civiltà occidentale, con predilezione di riferimento per la matrice greco-romana, riconosciuta come autentica culla dell’intera Europa. È una poesia che esprime appieno l’amore verso la vita come progetto dell’azione umana capace di occupare la scena del mondo e darle significato e direzione nel segno e nel sogno dell’amore, “bello ancora e bello tanto”, nell’operosità ordinaria espressa dalle minuzie di “chiavi caramelle coltelli cinte”, per sentirsi fino in fondo cittadini del “mondo dei vivi”.

Sandro Gros-Pietro

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