Prefazione

Dalla frantumazione della trimurti Stato-Scuola-Famiglia, che fin dal fatidico Sessantotto fu propiziata dal cosiddetto movimento studentesco, è discesa come corollario la totale dispersione dei valori e l’annullamento della speranza nel futuro da parte dei nostri giovani. Quella di oggi è una gioventù senza cielo. Poeti senza cielo è la bellissima dizione di un’e­let­ta collana di poesia moderna curata da Menotti Lerro: il titolo sta a indicare che, per il poeta immerso nell’attualità di questo tempo postmodernista, non è più possibile stupirsi nella contemplazione delle vaghe stelle scintillanti sul paterno giardino. La forza della metafora leopardiana è talmente sviscerata che non è lecito soffermarsi sopra. Non è più possibile coltivare i sogni che infiammavano i cuori dei giovani: il sentimento di appartenenza alla storia dell’umanità, il dono di sé agli ideali della politica, il desiderio della gloria, il rapimento dell’amore, sono divenuti altrettanti vasi canopi sigillati e rinchiusi in teche museali, e di essi sfugge l’utilità e il significato. Ma torniamo ai nostri giovani, per i quali lo Stato italiano decide di spendere sempre di meno per la loro istruzione e nulla per il loro futuro, ma sulle cui spalle carica pesi sempre maggiori di debito pubblico e cancella sempre nuovi sbocchi di lavoro e di sistemazione economica. I giovani se la vedono con uno Stato predone che li deruba quotidianamente della vita; frequentano una Scuola entropica che soffre di lassismo e d’improvvisazione; vivono in una famiglia assente dalle loro vite e infastidita dalle loro problematiche, spesso frantumata da laceranti divorzi e da rovinose coabitazioni. Siamo all’immagine del naufragio sociale, siamo alla metafora della Zattera della Medusa, il celebre quadro di Théodore Gèricault. Non pare possibile alcuna via di scampo per i poveri naufraghi, destinati a essere inghiottiti dalle acque. La metafora dell’affondamento della fregata francese Méduse si legge in termini di affondamento della trimurti stato-scuola-famiglia, su cui viaggiavano verso il futuro le giovani generazioni e che è andata a picco per il velleitarismo dei cattivi maestri che hanno pilotato la nave alla distruzione di sé.
La scena del bel libro di Francesca Luzzio inizia, dunque, sulla zattera dei naufraghi. Fra di loro, improbabile comandante della scialuppa già destituito di autorità, c’è la giovane e bella professoressa Giulia Lo Cascio, sposa e madre felice, ma che si lascia rapire da un amore impossibile e finisce tra le braccia di un suo allievo, dalla corporatura aitante e dalla carne profumata di gioventù. E lì c’è anche Alice, che apre il suo cuore di adolescente all’amore, ma rimane incinta dal compagno di scuola Giovanni, il quale, come sa che la ragazza è in dolce attesa, si trasforma in un lupo mannaro e la insulta barbaramente, le rinfaccia il cedimento dei sensi che la ragazza ha avuto sia con lui sia con chissà quanti altri, per cui la giovane vacilla stordita in strada, viene travolta da un’auto, si risveglia in ospedale, e trova vicino a sé come unica ancora di salvataggio la mamma, che forse collaborerà a ricostruire la vita della figlia. C’è Mario, che è stato pestato a sangue dai suoi compagni nei gabinetti della scuola, e che in segno di spregio e di umiliazione è anche stato lordato di urina, perché i bulli non accettano la sua individualità improntata al riserbo e all’isolamento, lo ritengono supponente o addirittura antagonista, tale da meritarsi la violenta punizione. C’è la tragedia di un altro Mario, figlio di genitori abbienti, che si è iniziato alla droga, per noia e per desiderio di evasione, e che giungerà a scappare di casa, per poi farvi ritorno con l’unico scopo di rapinare e pestare selvaggiamente i genitori. C’è Andrea, amico di infanzia di Giuseppe, a cui il ragazzo si lega con l’aspettativa in cuore di realizzare un legame omosessuale, mentre Giuseppe si innamora di Rita e Andrea sprofonda in una spirale depressiva di umiliazione, in fondo alla quale c’è la tragedia di un atto non conservativo rivolto contro se stesso. C’è Luigi, figlio del custode del palazzo dove abita la bella Daniela, che invece è figlia di una famiglia più che agiata, e Luigi, grazie ai favori scolastici che egli offre ai compagni più ricchi, pensa di potere essere accettato in un ceto sociale molto al di sopra del suo e perciò andrà incontro a una cocente mortificazione. C’è il branco di Marco, Alessandro, Daniele, Giuseppe, Vincenzo, Caterina e Daniela che organizza serate in discoteca con ampio consumo di droga presa a prestito dallo spacciatore, con il progetto di sdebitarsi organizzando una rapina ai danni dei barboni che vivono all’addiaccio, ma le cose non andranno come previsto e Vincenzo ne subirà le tragiche conseguenze. C’è Giulio, soprannominato il “ragazzo fagotto” perché sballottato come una valigia nelle case dei genitori separati, entrambi infastiditi dalle esigenze di vita e di studio del ragazzo. C’è Mohamed, ragazzo che è ritenuto solo a metà italiano perché i genitori sono sudanesi e, quindi, il giovane ha la pelle di colore più che scuro, ed egli vorrebbe tentare in ogni modo di sbiancarla con l’uso degli acidi. Ci sono molti altri casi di disagio educazionale e di violenza familiare o di cattiva educazione instillata dai genitori ai loro ragazzi, a causa di un esasperato desiderio di promozione sociale, sviluppato fino ai limiti della presunzione o addirittura dell’arroganza.
Si è già detto che le uniche vittime di questo naufragare delle istituzioni sociali sono i giovani, che rappresentano il ventre molle della società, cioè sono quelli destinati a pagare il prezzo più alto dello sfascio delle regole civili, talvolta causato anche dalla loro stessa violenza inconsapevole, e che alla fine si rivolge a loro danno in modo ancora più tragico. Ma non abbiamo ancora detto di un secondo amore impossibile, che si accende come un invincibile raggio di sole su tanta sciagura e che mostra la strada da percorrere per venirne fuori. Questo nobile sentimento è il trasporto di partecipazione e di correlazione che l’autrice – fra l’altro anche lei insegnante di lettere – instilla in ogni racconto come fosse il ponte di sicuro salvamento proteso a vantaggio dei ragazzi, i quali, per loro conto, sono degli scatenati demoni che patiscono e che diffondono anche nel prossimo lo scontento del loro disagio sociale. L’autrice li ama tutti, e non riesce a dannarne alcuno, neppure il più malvagio, come sarebbe l’alunno Fanti di Cuore, che, in verità, risulta essere il più vezzeggiato dalla facondia narrativa di De Amicis. Per tutti i suoi “terribili clienti di scrittura”, l’autrice studia il modo per realizzare il massimo del bene a loro vantaggio, in modo da orientarlo – ove sia ancora possibile – verso la salvezza e il riscatto, come si farebbe con un cucciolo disperso nella selva. E per fare questo, la nostra scrittrice elabora un nuovo metodo montessoriano, che sarebbe un nuovo linguaggio espressivo sia in prosa sia in poesia. Si tratta di una scrittura che pone la relazione con l’interlocutore come unico motore di sviluppo della scrittura. Scrivere serve a istituire il rapporto con gli altri, oppure non serve a nulla. La bellezza della letteratura, dunque, non sta nel fasto della pienezza declamatoria, ma risiede invece nella potenza solutiva della comunicazione, destinata a travalicare tutte le barriere, come un’onda anomala in piena che abbatte ogni ostacolo.
La traduzione dei racconti in poesia sviluppa una duplicità di soluzioni, perché da un lato conduce a quella stessa immediatezza di filo diretto con la realtà, che si riscontra nella prosa. Ma d’altro canto, la poesia apre l’orizzonte a un’elaborazione trasognata e metaforica del vissuto, come possiamo leggere in Accoglienza, agli allievi di IV: “Il sogno è bevuto, il bicchiere è mezzo vuoto, / ma tra gualcite piaghe recenti / ridono petali al solletico frenetico del vento”. È anche possibile che la forma versale assuma le cadenze tipiche delle ballate rap, che egregiamente rappresentano i gusti e la cultura dei giovani d’oggi, come riscontriamo in Movida, a Giulio: “Ma poi prof…/ solo un boato, un fuoco / un gran dolore, / sirene a manetta / e poi… zao / non sentivo più niente. // Ora son qui / e non sono più un esa. / Ho le stampelle / e son meno bello. // Ma son qui, che bongata! / E la vita anche così / è proprio una tocata”. Infine, va detto che anche nella versione in poesia, si manifesta quella discrasia ovvero quel conflitto di interessi che oppone la poesia della letteratura, vissuta sui libri e instancabilmente riproposta dall’insegnante, alla poesia della vita, coccolata e trasognata dai giovani, che la sperimentano tra i banchi di scuola, come si legge in Tradimento, a Letizia, che vale la pena di proporre per intero: “Balenìo inquieto / nei tuoi occhi neri / vaganti nel rettangolo di cielo /grigio, come lo vedi tu. // Mani sul banco che chiedono carità / bianche le labbra, chiuse / nell’assenza apparente di pensieri. // Io parlo di Mosca, la donna di Montale / e getto fiori sulle tue mani, / ma queste lente, le lasciano cadere. // Tradita, come immobile / statua, vaghi nel vuoto. // Inutilmente lo vorrei riempire”.
Il linguaggio della poesia, adottato da Francesca Luzzio, ha in comune con la prosa un’esposizione semplice, tattile, sensuale, palmare, immediata, autentica, tersa, usuale e rassicurante. Una scrittura che punta sempre alla realtà delle cose, all’immanenza dei fenomeni, alla forza dei rapporti umani, all’enormità dell’evidenza: e lo fa in modo diretto e conciso. Una dizione che accoglie e interpreta la forza di comunicazione dei giovani attraverso l’uso del loro slang, che è aderente alla materialità delle cose quasi quanto sanno esserlo i dialetti caduti in disuso dei contadini, con una forza inventiva onomatopeica e visionaria, ma sempre esercitata sui rapporti di realtà fra gli oggetti e le persone. Il libro è una specie di double face perché interfaccia fra loro il racconto in prosa e l’elaborazione sintetica degli intrecci trasposti nel linguaggio della poesia. Ma il modello di scrittura rimane sempre lo stesso, di cui si è già detto. Dunque, un libro stupendo non solo per il livello di documentazione d’attualità del disagio giovanile, ma anche per la squisita e riuscitissima proposta di stile di scrittura con cui parlare ai giovani e inviare loro i corretti messaggi per il prosieguo della navigazione verso un buon approdo.

Sandro Gros-Pietro

Anno Edizione

Autore

Collana

Recensioni

Non ci sono ancora recensioni.

Scrivi per primo la recensione per “Liceali”

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati