Prefazione

Giulia Bocchio, giovane poetessa che tuttavia non è più agli esordi, ma che ha già alle spalle un’esperienza di scrittura individuata dalla critica, ha il coraggio di fare la scelta giusta e di chiedere alla poesia di tentare la ribellione, lo strappo, il sublime, l’extraordinaire. Che farsene della logica piana? del raccontino breve? della testimonianza scontata? dell’emozione anodina? Sarebbe il borbottio di una pentola di ribollita sul fuoco: cioè un vapore maleolente che ristagnerebbe nell’aria, in quello stesso elemento che, al contrario, la poetessa pretende che palpiti di un respiro coraggioso e ribelle, magari di zolfo e di fuoco ovvero anche di magnificenze paradossali e barocche, purché ingegnose e inusuali. La poetessa chiede alla poesia di trasmettere la sensazione di “vano vanto del vento”, o di qualcosa altro di simile, stante il fatto che la citazione potrebbe anche derivare da un compulsare e un aggregare frettoloso – e non autorizzato – di parti diverse degli scritti che abbiamo sotto gli occhi. È fondamentale però ricostruire il significato del trinomio appena citato, il quale potrebbe essere considerato la santa barbara della poetica di Bocchio. Per prima cosa, la poesia deve essere una vanità. Lo deve essere non già nel senso plumbeo e pessimistico dell’esistenzialismo più nero, per cui tutto è vano, tutto è inutile, tutto è un desolato deserto di esperienze gratuite ed equipollenti: una cenere soffocante e ricoprente l’intera vita umana. Al contrario, la vanità di Bocchio è la leggerezza e la levità dell’essere: la sua imprendibilità, indicibilità, inafferrabilità. Nessuna moneta può comprare la poesia e nessuna parola può definirla in un motto conclusivo. Da questa condizione di straordinaria possibilità di liberazione della poesia deriva la giusta constatazione del suo vanto: nessuna cosa può vantarsi come lo può fare la poesia, perché nulla ne pareggia l’assoluta libertà espressiva, affrancata da qualsiasi forma di servilismo o anche soltanto di attività utilitaristica per la vita. Infine, il vento è l’antico pneuma dei greci, lo spirito divino che anima il cosmo, l’anemo, l’aria, il movimento, cioè l’elemento più rappresentativo della vita.
C’è una scaturigine di maledettismo alla base della poesia di Bocchio. La sorgente sgorga dalla Parigi di metà Ottocento, per intenderci da Les fleurs du mal, ma poi passa per quella rivoluzione poetica europea che è sacralizzata da Nerval, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud, Apollinaire, Valery, tanto per citare alla rinfusa prendendo a caso nel grande emporio dei Poeti-contro, maledetti e ribelli dell’Ottocento francese cui recentemente lo studioso Guido Davico Bonino ha dedicato la deliziosa antologia di testi e personaggi appena citata, uscita nel 2013 nei caratteri Genesi. Si tratta di una cinquantina di poeti che si impongono di assumere una posizione “alternativa” in poesia rispetto alle mode del tempo, rompono con la tradizione, con le regole, con il senso comune del bello, con i criteri della prudenza e della decenza e aprono la mente al protagonismo scatenato che poi si svilupperà dal tardo Ottocento e per gran parte del Novecento. Giulia Bocchio, che ama Parigi come sua seconda patria se non addirittura come prima per adozione, sembra che abbia studiato e meditato l’antologia di Davico Bonino, tanto ne ha fatto suo il messaggio estetico e artistico. Ma ha fatto fin di più, andando a citare, tra i suoi preferiti, quel tale Sébastien-Roch Nicolas de Chamfort – che per motivi di competenza temporale non poteva rientrare in un’antologia consacrata alla seconda metà dell’Ottocento francese, ma che per contenuti e per atteggiamenti anticipa di mezzo secolo il Big Bang di Les fleurs, da cui nasce tutto l’immenso cosmo della poesia occidentale moderna, cioè il cosiddetto, sia pure in senso riduttivo, modernismo. Di Nicolas de Chamfort viene citato il detto “i benpensanti sanno resistere, i passionari sanno vivere” che serve già subito a chiarire quanto la vita sia più fatta di calori emotivi che non di calcoli al risparmio, ma è famosissima quell’altra citazione dello scrittore e aforista parigino, che figura nell’edizione di Massime e Pensieri. Caratteri e aneddoti, con introduzione di Albert Camus, nella BUR, e che sostanzialmente dice “Che cosa diventa un presuntuoso, privo della sua presunzione? Provatevi a levare le ali di una farfalla: non re­sta che un verme”. Circa cinquant’anni dopo, Baudelaire ri­prendeva il concetto accennato da de Chamfort, del “poeta farfalla, che senza il vanto delle ali diviene un verme” e scriveva il celeberrimo Albatro, il noto “poeta gabbiano” che, disceso dall’azzurro del cielo sul grigio della tolda di una nave, cammina goffamente e inciampa nelle sue stesse ali.
Sbaglierebbe chi pensasse che Giulia Bocchio vive fuori dal suo secolo in un anacronismo ottocentesco, nei fru-fru del can can del Moulin Rouge, seduta al tavolo di Toulouse-Lautrec, in un’illuminazione rimbaudiana. In realtà, vi è in lei una scelta consapevole e precisa, che poggia sull’elogio del pavone, cioè sull’esibizione studiata come postura estetica e solenne della bellezza, tanto vanitosa, quanto semplice e naturale, proprio come è del pavone, il quale è pura vanità come è essenziale e ineguagliabile naturalezza di porsi. In fondo, se vogliamo fare gli ipercritici, la scelta di Giulia Bocchio è antica quanto la civiltà occidentale, visto che i Greci premiano Afrodite solo perché è bella e vanitosa, e solo dopo intervengono anche le ulteriori osservazioni circa la sua fecondità, facondia, la rigenerazione e gli altri minori corollari delle sue operose virtù o presunte tali. Ma lo stupor mundi sta sempre nel vanto ineguagliabile di una manifestazione tanto ipnotizzante, quanto assolutamente fine a sé stessa e, quindi, in un qualche modo vanitosa ovvero vana.
A bene leggere, fra i versi sempre scintillanti in ingegnose architetture verbali, non c’è soltanto l’odore di zolfo e la passione del fuoco, il fiume lavico di un magma incandescente che ri­fonda ex novo la storia del mondo e della poesia, ma vi è anche lo zucchero e le dolci armonie dell’amore, dei sentimenti delicati, le tenerezze degli appoggi leggeri e trasognati, i sogni di una beatitudine di pace e tranquillità, come si ritrova in numerosi te­sti e in diverse forme espressive contenute nelle bellissime poesie d’amore del ciclo parigino, dedicate a una figura amata che resta senza nome, ma che riluce nello splendore di una parola poetica tanto luminosa quanto delicata.
La poesia di Giulia Bocchio nasce da un elogio all’esagerazione, come invito meditato e rivolto alla poesia di rendersi funzione arricchente e moltiplicativa della realtà del mondo, qua­si quanto potrebbe esserlo un acceleratore nucleare cui è de­mandato il compito di esagerare le leggi della natura per trovare il “bosone”, cioè la testimonianza di un’essenzialità primigenia a cui tutto si può fare risalire in quanto sorgente a monte d’ogni al­tro oggetto rotolante a valle, lungo la china ordinaria dell’abitudine e delle forme deputate dall’uso.

Sandro Gros-Pietro

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1 recensioni per Il vento del vanto

  1. Valentina Secone

    Il libro di Giulia Bocchio ci sprofonda in un universo di sentimenti, contrastanti e intensi. Un microcosmo di parole nel quale il lettore non trova risposte e forse, neanche domande. Perché l’intento dell’autrice non è quello di dimostrare semmai quello di mostrare. In una ricercatezza formale che spesso sottostà alle urgenze della scrittura ma che affascina e seduce l’orecchio del lettore. Consigliato!

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