Prefazione

Augusto Zucchi mi ha affidato il suo prezioso manoscritto e ha precisato di avere trattato il delicatissimo tema del rapimento dei minori, animato da tempo da una particolare motivazione verso l’approfondimento di un fenomeno inspiegabilmente poco rappresentato, a fronte di dati e statistiche a dir poco allarmanti.
Vi ho trovato pagine drammatiche e intense, con la descrizione attenta e approfondita di eventi dai contenuti estremamente forti, affidati a una trama narrativa suggestiva e straordinariamente efficace, che conduce il lettore nei meandri più oscuri e insospettabili dell’animo umano.
Dove il crimine oltrepassa l’immaginazione.
Dove viene meno il rispetto di ogni pur minima forma di dignità.
Dove inesorabilmente si azzera tutto.
L’io narrante, Cesare De Andreis, è alla ricerca di informazioni sul fenomeno della scomparsa dei bambini e del relativo sistema di intervento che, pur rivolto alla soluzione di casi drammatici, sembra invero affidato a un quadro normativo estremamente carente, a un’informazione pressoché assente e a figure professionali prive di mezzi e risorse adeguate, apparentemente distanti, talora incapaci di riconoscere l’esistenza stessa dei singoli casi.
Nel tentativo di comprendere quali competenze e quali strategie possano attivarsi, ci si imbatte nella incomprensibile ritrosia di numerosi operatori ad attribuire il corretto significato alla scomparsa dei bambini e nella difficoltà – umana, prima ancora che istituzionale – di accostarsi ai fatti e ai loro protagonisti.
Sarà l’inatteso e inquietante racconto del sedicente Gianluca Deluca, invisibile interlocutore, ad alimentare l’esigenza di Cesare di approfondire la reale dimensione di un fenomeno che sembra sfuggire un po’ a tutti, conducendo quasi alla rassegnata convinzione di un’assenza concreta di casi specifici.
Invisibile interlocutore che, attraverso una comunicazione per mail, si dichiara investito di una vera e propria missione e affida progressivamente a Cesare una storia drammatica – fin troppo accurata per esserne mera invenzione narrativa – il cui protagonista è un poliziotto in pensione, che ha compiuto da infiltrato delicatissime missioni speciali, che inizialmente entra in scena da personaggio emarginato e chiuso in se stesso, che ha interrotto ogni legame affettivo e professionale, schiacciato dai sensi di colpa di un passato che sembra non perdonare a se stesso, né essergli perdonato da colleghi e famigliari.
La sua grigia esistenza è scandita dai ritmi lenti e vacui di una mera sopravvivenza, sostenuta unicamente dagli incontri rubati e clandestini intrattenuti con la nipotina Alice e dal loro profondo e affettuoso legame, alimentato da semplici sguardi e fugaci e teneri gesti che, da soli e sebbene vietati, riescono ogni volta e per pochi minuti a “disten­der­gli le rughe, illuminando quel volto stanco e velato dall’alcool”.
Sarà proprio questo nonno, relegato nell’oblio, a rendersi protagonista di un vero e proprio inseguimento per il ritrovamento della piccola Alice, improvvisamente sfuggita al controllo della mamma, sia pure in un contesto assolutamente rassicurante, e invero rapita e divenuta vittima di una spietata organizzazione criminale dedita allo sfruttamento sessuale di minori.
Senza alcuna esitazione, sfidando il sistema delle regole e delle competenze che pur conosce bene, ma soprattutto sfidando se stesso – unicamente animato dall’obiettivo ineludibile di ritrovare Alice – ricostruirà una storia dai contorni inquietanti.
E via via troverà anche se stesso, ricomponendo le sue più intime emozioni, rimaste immobili e irrisolte, recuperando il senso altissimo della nobile professione di agente di polizia che, svolta spesso ai limiti e in situazioni estreme, può condurre verso imprevedibili epiloghi drammatici, rivelarsi impietosa e relegare l’esistenza di un uomo nella disperazione più profonda.
Attraverso l’esposizione di Gianluca, il lettore non può sfuggire al bisogno di entrare a tutto campo nella sequenza incessante di eventi inquietanti che si susseguono rapidamente e che ci introducono in luoghi fatiscenti, alla visione di immagini raccapriccianti; ci mostrano scenari impensabili, ove si muovono figure che rappresentano ed esprimono unicamente la componente più perversa dell’animo umano – tanto dell’uomo quanto della donna.

Si fatica ad accettare che esista davvero qualcosa di tanto devastante, che coinvolge le figure più vulnerabili e indifese, cui viene sottratta anche la stessa identità.
Eppure tutto ciò accade nella realtà.
Perché l’essere umano è, tra le creature viventi, la più complessa, contorta e indecifrabile. Può amare, accudire, educare, proteggere e al tempo stesso odiare, umiliare, maltrattare, abusare fino a uccidere barbaramente – generando orrore e sgomento nella collettività.
E se anche gli operatori non riescono talora a offrire una corretta definizione del fenomeno, riparandosi magari attraverso l’uso di terminologie più rassicuranti – parlando di “scomparsa” e non di “rapimento” – non credo si tratti sempre e soltanto del disconoscimento di un fenomeno.
Se l’informazione mediatica, al di là dei fatti di cronaca dal tragico epilogo in cui si è trasportati dall’onda emotiva, appare nella quotidianità frammentaria, nebulosa o carente nella rappresentazione – non credo si tratti sempre e soltanto di approssimazione o dell’opportunità di dissimulare il vero.
Se ciò accade – anche agli operatori del settore – è forse dipendente dal tentativo, spesso inconsapevole, di rimuovere da noi stessi la brutalità di questi orrori, che inducono a mantenere distanza e a non accettare un crimine così efferato che lascia sgomenti e impotenti.
L’incredulità e l’inquietudine ci porta talora a volere costruire delle categorie criminali che si differenzino il più possibile da noi stessi, creando il profilo di “un altro”, che non ci somiglia e in cui non possiamo in alcun modo riconoscerci o identificarci.
Laddove, invero, un qualsiasi individuo può essere un uomo o una donna rispettabile; può essere il rassicurante e insospettabile custode della sede del luogo di lavoro della mamma di Alice, per poi sfogare le sue frustrazioni e gli istinti più riprovevoli sulle figure più fragili e indifese.
Da magistrato, a lungo impegnata in delicatissime e numerose indagini in materia di abuso sessuale e maltrattamenti in pregiudizio di minori, ho seguito la narrazione della storia di Alice condotta “all’inferno” in tutta la sua dolorosa ma autentica sequenza, alla ricerca, come i suoi stessi protagonisti, di un finale benevolo che restituisca la bambina ai suoi affetti più cari.
Ho riconosciuto, per averli personalmente incontrati nel mio percorso professionale, i tanti, troppi bambini, vittime indifese della bestialità degli adulti, costretti ad accettare passivamente di essere stuprati, seviziati e talora fotografati, venduti e pagati, senza il diritto di opporsi, di raccontare e di chiedere indietro anche i propri giocattoli.

Ma forse la verità è che entrare in queste storie è un’operazione difficile e mai neutra per ognuno di noi.
Ed è impensabile che i fattori emotivi possano attraversare la men­te e il cuore del magistrato, del poliziotto o di qualsiasi altro operatore, ritenendo di potere procedere nelle analisi e negli interventi, ma mantenendosi neutrali e non investiti da forme di ansia, da stress, da sentimenti di empatia, da inquietudini e vulnerabilità; o ancora da euforia o entusiasmo, magari originati da interferenze mediatiche forti.
Perché i percorsi – personali e professionali – si intersecano sempre, si intrecciano tra di loro ed è assolutamente utopico pretendere di conservare una netta scissione tra il proprio sé professionale e il proprio sé personale.
E se questo è un dato inconfutabile, la vera difficoltà poggia nella dicotomia propria dell’essere umano, nella coesistenza, in ciascuno di noi, di polarità opposte e della possibilità di riconoscerle e di esplorarle.
E il dramma dicotomico sta proprio nel desiderio/timore di entrare in contatto con i contenuti più autentici e profondi del proprio sentire, con i significati della propria trama esistenziale, ovvero di azzerarli, di negarli, non portandoli mai al livello di coscienza.
L’incontro con le altrui emozioni è certamente impegnativo, non è facile ascoltare ciò che non ci piace, che è imprevisto, impensabile ma che costituisce un patrimonio indispensabile, che deve entrare nelle stanze della nostra mente e nella nostra sfera emotiva, con cui dialogare per comprendere le emozioni dell’altro e gestire e orientare correttamente le nostre risorse verso un giusto intervento, rispettoso tanto della vittima quanto di tutti i protagonisti delle vicende.
Ed è quello che accade a Gianluca, che nella frenetica ricerca della piccola nipote, giungerà a svelare e ricostruire la crudeltà del fenomeno, incontrando figure complesse e variegate, ricomponendo allo stesso tempo i suoi stessi conflitti, riconoscendosi infine nella necessità, sotto altra veste, di riappropriarsi del ruolo di chi contrasta il crimine, dando altresì senso e collocazione alle sue stesse fragilità.
Non può tacersi che nella complessa normativa di contrasto alla pedo-pornografia e allo sfruttamento minorile sono previste specifiche norme che consentono al personale di polizia specializzato di agire “sotto copertura”, attivare siti civetta, realizzare e gestire aree di comunicazione o scambio telematico e che, per acquisire elementi di prova, si può anche, previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria, acquistare materiale pedopornografico o partecipare attivamente a operazioni di intermediazione e scambio. Così come vi sono accordi e convenzioni per gestire il contrasto al crimine attraverso la cooperazione internazionale.
Ma la previsione di strumenti normativi adeguati non ci deve esimere da un’attenta valutazione della vicenda, che tenga conto dei contesti, delle relazioni umane e di ogni dinamica interna, fattuale ed emozionale.
Poiché ogni storia è sempre e soltanto quella storia e i soggetti che la vivono, adulti o minori, sono persone uniche, irripetibili e sempre complesse. Ed è dal riconoscimento di questa complessità che tutti gli operatori istituzionali dovrebbero partire – per offrire organicità ed efficienza al sistema.
Perché è vero che ogni scomparsa di un bambino non è sempre un rapimento, ma può nascondere qualsiasi trama, disagio interiore, conflittualità tra genitori o altro, che necessita comunque di interventi rapidi e appropriati a opera di esperti competenti.
Ma è altrettanto vero che la scomparsa di un bambino può essere un rapimento posto in essere da pericolosissime organizzazioni transnazionali dedite allo sfruttamento sessuale o alla vendita di organi e dei bambini – strutture stabili, organizzate, con disposizione di mezzi e risorse micidiali, nei confronti delle quali occorre agire con forza e tempestivamente.
Ed è proprio con l’attenta opera di analisi e di ricostruzione delle vicende umane, attraverso l’accoglienza e l’ascolto di tutti i protagonisti, che si ha l’opportunità di cogliere gli aspetti più profondi della sofferenza e del trauma, per definire i contorni di una storia e canalizzare le nostre risorse di operatori verso un giusto intervento, rispettoso tanto della vittima, quanto delle esigenze investigative e processuali.
Senza ricorso a luoghi comuni, senza facili generalizzazioni, senza fretta.
Perché nelle difficoltà di intervento e anche nella disperazione, il recupero anche di un solo bambino restituisce senso e significato al nostro lavoro ricomponendo misteriosamente ogni più profonda emozione.

Credo che il libro di Augusto Zucchi sia un’opportunità irrinunciabile per tutti noi e per quanti ancora sentiamo distante il fenomeno, finché non ci coinvolge direttamente; per intervenire, correggere e scuotere i pensieri e le coscienze di tutti noi; per maturare una nuova e più ampia consapevolezza della dimensione culturale sociale e politica del problema, per prevenire inciviltà e degrado, per superare lo squilibrio relazionale tra l’adulto e i più piccoli e il pregiudizio che alimenta discriminazione intolleranza e prevaricazione nei confronti dei più deboli.
Ad Augusto Zucchi il ringraziamento per aver dato, attraverso pagine intense e avvincenti, dignità al dolore e alla sofferenza, rappresentando la brutalità e l’orrore del crimine senza mistificazione alcuna, nella sua esatta connotazione, inquietante, indicibile e drammaticamente vera.
Orrore che non può né deve essere edulcorato o definito da false e certamente più comode rappresentazioni.
Perché, ognuno di noi, dinanzi al dolore delle vittime e all’orrore del crimine: “non deve avere paura di avere paura”.

Alessia Sinatra
Sostituto Procuratore della Repubblica Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo

Breve Notizia Biografica

Alessia Sinatra è magistrato, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, componente della Direzione Distrettuale Antimafia. Si è a lungo occupata di indagini e processi per reati in pregiudizio delle cosiddette “fasce deboli”; è stata Presidente della Commissione Minori dell’Associazione Nazionale Magistrati ed è in atto componente del Comitato per le Pari Opportunità in Magistratura.

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