Prefazione

È un ritorno salutato con gioia quello di Carlo Lano, con I condòmini di Dio, nei caratteri di Genesi: nel 1982 era apparso nella Antologia di testi poetici giovanili intitolata Il rinoceronte tra le nuvole e aveva presentato dei versi che, a riprova della loro durabilità, qui vengono riproposti, a distanza di oltre dieci anni e insieme alle nuove composizioni. La poesia di Carlo Lano nasce dopo la dissolvenza e dopo la dispersione degli ideali e degli obbiettivi del grande stile poetico, che invocava una figurata patria delle idee e che ipotizzava un percorso di cultura, metastorico e mitico, della bellezza; che teorizzava l’esistenza di una presunta repubblica dell’arte, autonoma dalla realtà, capace di autogenerarsi da sola rileggendosi indefinitamente a specchio e autocitandosi con richiami continui della propria me­moria perennemente rivolta al già scritto, all’evento di inchiostro precedente, ma che non riuscì comunque a respingere l’assalto e la contaminazione della quotidianità – dell’“infilascarpe” – e che di quella realtà oggettiva, dissociata e metropolitana anziché armonica ed edenica, come richiede il grande stile, patì l’incapacità conclamata e puntualmente ribadita del grande stile di sapersene appropriare, di saperci entrare dentro, saperne cogliere lo spirito, la direzione, i valori, i punti di ri­ferimento, ammesso che nel quotidiano ci sia un sud e un nord, e ci siano altri punti cardinali e una direzionata rosa dei venti. Si è venuta a creare, così, una evanescente latitanza del discorso poetico, spaccata nelle solite due anime della poesia, che sono la forma e il contenuto. La latitanza delle forme ha condotto alle esperienze soprapensiero della parola innamorata mentre la latitanza dei contenuti condusse a un rimestio barocco di aspirazioni al fantastico, ad una esplosione dell’invenzione tratta dal catalogo delle idee, a un ripescaggio e a un reingaggio, quasi stucchevole, di occasioni creative pomposamente accademiche. Nell’ansia del quotidiano e nell’assillo della perdita di ogni chiave di lettura; nell’afonia di non possedere il linguaggio adatto per rappresentare la realtà che ci circonda; nell’angoscia di non potere elaborare processi di identificazione e di immedesimazione con la realtà dentro cui, tutto sommato, si è costretti a vivere e ci si ritrova sempre immersi, il poeta – nel caso specifico si tratta di Carlo Lano – se ne rimane stordito e so­gnante, con una vaga aspirazione, per altro negata, di disegnare “confini esatti” con cui configurare e riconoscere la terra su cui vive, come splendidamente ci rivelano i versi seguenti:

Il vento restituisce il tempo all’eterno
e lo dipinge nel cielo
accarezzandolo di nuvole di nessuna stagione
le nuvole sono visione

il vento annulla i mesi e gli anni
e io di sotto sono un velo
uno schermo che implora
confini esatti che limitino la terra.

Se esistesse un’antropologia della poesia, si converrebbe che il canto alla luna è consustanziale ad ogni poeta, pur nella varietà di forme schermate, acchittate e mascherate con cui il canto lunare può svolgersi, in quanto non sempre è pienamente esplicitato. Carlo Lano, nel tracciare il ritratto del poeta spoetato dei giorni nostri, non tralascia di compiere una visitazione ispirativa anche alla luna in quanto simbolo essenziale e in quanto bisogno primario della poesia, difficilissimo da rappresentare, perché troppo consunto dall’uso poetico, fino ad essere spogliato di ogni significato, fino a divenire una terra bruciata e desertificata, insomma, una luna torrida:

Poi il tempo ritorna
e la luna è nemica e la luna è tradita
luna di un cuore inviso alla pace
luna che tace
angoscia di uno che vede e si chiede
che cosa si dice della luna che cade
luna di sangue sangue sul cuore
luna da sempre lo stesso dolore.

L’aspirazione rivelativa che è parte essenziale della parola poetica e che accosta il verso del poeta al verbo rivelato – la “scala verso dio” – diviene un patteggiamento, una transazione, un regolamento condominiale, per una ironica coabitazione dei valori appiattiti del sacro e del profano e i poeti, visionari condòmini di Dio, cadono in afasia e perdono la capacità di rivelarlo e, anziché trascenderla, si adeguano ad accettare la morte:

I condòmini di Dio
hanno stipulato il contratto
nascondono l’anima celestiale
fra le pareti di casa
e vi dormono
aspettando alfine
la morte.

La tensione verso Dio e verso l’assoluto è al centro dell’indagine poetica di Carlo Lano ed è svolta specularmente con il tema, sempre ricorrente, della morte che è il grande salto sia nel vuoto sia nell’immenso; è il passaggio, è la lanterna attraverso cui si riverbera luce nella cupola della costruzione architettonica dell’uomo – l’architettura del suo sapere, delle sue discipline, della sua presunzione di razionalizzare il caos dell’universo – e mette in contatto con il niente e con il tutto che, appunto, è rappresentato da Dio. E una luce che ha una forza rivelatoria e annichilente e dentro la quale il verso si confonde e si scontorna con il verbo, per cui anche emerge la presunzione di credere in questa irreale mirabilia, di credere o di presumere che esista questa improbabile zona di dogana e di scambio fra sacro e profano ove, per paradosso, Dio si contamina con il poeta il quale, a sua volta si confonde con un anonimo calzolaio di Bene Vagienna, come leggiamo in Annuncio funebre, scritta in omaggio a Giuseppe Ungaretti:

Di che reggimento siete
fratelli?
Io
m’illumino
d’immenso

Nella notte si è illuminato d’immenso
Bartolomeo Manassero
calzolaio di Bene Vagienna.

Quasi fosse un’impropria o traslucida eco di letture pascoliane, Carlo Lano trova sempre nello stupore il sentimento e l’emozione più forte che gli trasmette la vita. E uno stupore antico, antropologico, primordiale, originario. E un’eco ammirativa per l’atto della creazione, che si ripete affabulata nelle formule, così congeniali a Carlo Lano, dell’introduzione alla favola, al resoconto della creazione – minimalistico breviario estetico e lessicale – e che si concretizza nelle locuzioni c’era-c’è-cosa c’è ed altre ancora, sovente ricorrenti nel dettato poetico. E il concetto dei primordi, delle origini e delle radici, che era già presente nella poesia giovanile di Carlo Lano e che non è mai stato abbandonato, ma che, anzi, è stato ulteriormente sviluppato e, talvolta, anche rielaborato nella forma popolare della ballata musicale, come in Eden nel pueblo:

C’era un vecchio pueblo indiano
grande come il pugno di una mano
sospeso fra cielo e terra
estraneo alla guerra

Non è, infine, un caso se l’ultimo poeta, prima della spoetizzazione, cui Carlo Lano si rivolge sia Cesare Pavese, a cui vengono dedicate le due bellissime ed intense poesie Lavorare stanca e Cesare Pavese e con il quale Carlo Lano ha in comune lo stupore e il disturbo amletico di appartenere, malgrado tutto, alla realtà di questo mondo.

Sandro Gros-Pietro

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1 recensioni per I condòmini di Dio

  1. Bruno Sarzotti

    Ciao Carlo, mette i brividi leggerti oggi che non ci sei più. Così ti sei illuminato d’immenso anche tu … Un abbraccio

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