Prefazione

L’opera poetica di Paolo Barbagelata viene presentata nella metafora di un impiantito teatrale fatto di assi, nel quale le uniche stelle sono le viti che svolgono la funzione di congiunture per orientamento ed equilibrio, e che noi possiamo immaginare rilucano di brillio metallico. In verità, non si tratta del boccascena di un teatro, ma come interpretiamo dalla copertina del libro si allude a un pontile o ad altra costruzione marinaresca, che in chiave poetica richiama il battello ebro di rimbaudiana memoria. L’allusione giustamente non è neppure adombrata dall’autore, perché il Poeta Veggente dalle suole di vento, con la sua stagione all’inferno, condannato a vivere come lo siamo tutti noi in una società moderna che ha banalizzato i valori della bellezza e del sogno sostituendoli con il pragmatismo borghese dell’accumulo monetario, ha già ricevuto la celebrazione entusiastica di almeno cinque generazioni di poeti, che acclamarono la pubblicazione del Bateau ivre avvenuta nel 1871, al punto da apparire un omaggio di mestiere, per cui deve essere apparso meglio non menzionare il virile ragazzo omosessuale di Charleville. Eppure, eccolo lì, pagina dopo pagina, con i suoi colori delle vocali, a insistere e ad ammonire quanto sia importante il valore della parola poetica, di per sé disvelatrice di inimmaginabili derivazioni etimologiche ed altre memorie ancestrali come fantasmi o creature quantistiche – oggi diremmo avatar – che provengono da mondi paralleli e da realtà linguistiche d’altre epoche, di cui è testimone l’assito trapuntato di viti stellari su cui cammina il lettore, pagina dopo pagina.
La parola per Paolo Barbagelata è un ologramma, come è testimoniato in Quel calore della carta matta, che ha una radice nel dialetto genovese – ma sarebbe meglio dire nella lingua della Città Superba – con derivazioni arabe e spagnole, nonché proiezioni oceaniche spinte a Sud dell’Africa, fino a Tristan da Cunha, oggi territorio britannico d’oltremare. La poesia di Paolo Barbagelata è ricomposizione in découpage di tracce di vita e di avventure della realtà e dell’immaginazione, viaggio fantasioso senza l’individuazione di una meta precostituita che altro non sia la ricerca della Wonderland, la Terra del meraviglioso, già promossa da Lewis Carroll nel suo impagabile libro Le avventure di Alice nel Paese delle meraviglie. Ne deriva che, esattamente come avviene per Alice, il libro è pervaso dallo scricchiolio del battello in termini di nonsense, cioè la mancanza del nesso causale, la ragione spicciola del borghese benpensante, che quotidianamente cura il suo tesoretto monetario come fosse la verità eterna, il fuoco delle Vestali, quando invece è il nonsense sesquipedale.
C’è nell’assito una figura femminile che attraversa la scena epica dell’avventura letteraria. Potrebbe trattarsi di una Pisana, donna indipendente e di prestigio morale, che ama il suo Carlino, ma che è anche attratta da altre avventure di cui non si dà conto, se non attraverso l’immanenza delle sue inopinate assenze. Tuttavia, il Poeta sempre a lei si orienta, la istruisce, la vezzeggia, la circonda di attenzione e ne trae ispirazione. Potrebbe essere la mitica regina di Saba che incanta Salomone e che forse gli ispira Il cantico dei cantici o Nefertiti che istruisce Akhenaton o ancora Cleopatra che seduce Cesare in persona. La storia dell’umanità e l’avventura letteraria passano sempre attraverso queste alate figure femminili che posseggono il segreto indicibile dell’ultima verità giammai svelata, perché imperscrutabile dall’ottusità maschile. Più letterariamente, potrebbe essere la Musa della Poesia, cioè la Parola stessa, che si concede alla corte serrata del Poeta, senza perciò renderlo edotto della meravigliosa visione, come accade a Beatrice nei confronti di Dante a conclusione del Paradiso.
Vi è tanta modernità, lancio ludico di coriandoli in cielo, schermi lacaniani tracciati tra reale-simbolicoimmaginario, fusione di tempi e di luoghi in un gioco continuo di alterità che diviene giogo di analessi e prolessi, per cui si assiste alle pitture di Apelle (nulla dies sine linea) e ai cortometraggi di Zapruder (assassinio di J.F.K.). Più che un’agnizione si tratta di una catena di pareidolie, cioè si osserva il caos e il disordine, ma si immaginano l’ordine e le figure: “Vedo il vero e mi spavento. Io sono la mia fantasia.”
In più casi la poesia è impostata come un controcanto, in due tempi ovvero in due corsie versali distinte, che ammettono due sensi autonomi di lettura, come avviene in La Merica delle promesse e in Di getto poche parole o anche in E tu dondoli, stasera, mi dici, e altre ancora, con giochi di parole, sovente ripresi in rondeau o in anafore ecolaliche, insistite come un’ossessione ammaliatrice o una liturgia ipnotizzante.
Infine, veramente regale e perfetto come l’O di Giotto, appare il distico che convoglia l’ironia nell’imbutoPietre sul mio sentiero anacoluto / scivolo come se fosse piovuto

Sandro Gros-Pietro

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