Introduzione

Durante i trentatré interminabili giorni trascorsi da mio marito in sala di rianimazione, un uragano di dolore è entrato nella vita mia e di mia figlia Sabrina, spazzando via sogni e certezze e lasciando un’angoscia straziante che non si placa anzi si amplifica. All’inizio, quando Umberto era ricoverato nel reparto Pneumologia-Covid per cinque giorni (e io e Sabrina chiuse in casa perché positive al Covid-19), il telefonino univa le nostre tre anime e veicolava le nostre voci, era quel filo magico che correva lungo i tre lati del triangolo. Con l’entrata in rianimazione e la conseguente rimozione del cellulare, il dialogo verbale a tre si restrinse a due, anche se la connessione spirituale era ancora triplice, se possibile intensificata. Un sincero grazie a tutti coloro, in primis a Luisa (sorella e medico cui sono debitrice di importanti consigli), poi a Silvana, Mina, Silvia, Monica che con sincera afflizione ci hanno quotidianamente sostenuto con incoraggiamento e consolazione. Ringraziamento che si estende a tanti amici e conoscenti che in vari modi hanno dimostrato autentica com-passione, quel nobile sentimento (dal latino “cum patior” “soffrire con qualcuno”) che al giorno d’oggi è quanto mai auspicabile e necessario. Questo drammatico e inaspettato evento ha radicalmente cambiato le nostre vite nel rispetto dei diversi ruoli coniugale-filiale, non tanto nei riti della quotidianità, quanto nell’approccio alla Vita, nella ri-scoperta dei valori e degli obiettivi primari da assegnare all’esistenza, all’esistenza che da un momento all’altro può essere recisa. E soltanto quando un nostro caro viene a mancare, realizziamo quanto egli sia stato importante per noi, sopraffatti dai rimpianti e dai rimorsi di non averlo apprezzato e assistito abbastanza quando era vivo.

Ma continuare a struggersi nei rimpianti è come avere una zavorra attaccata al piede che non ti permette di correre. Più che chiedere perdono è fondamentale riuscire a perdonarsi, a riappacificarsi con se stessi. Sabrina, dopo lunghe settimane di preghiere e raccoglimento spirituale, un po’ alla volta ha scoperto risorse mai immaginate fino ad allora che ha profuso nell’attività lavorativa e nell’approccio più empatico con gli altri, in primis con i figli, privati del nonno che adoravano. “Mamma, sono convinta che questa forza mi venga trasmessa da papà, lo sogno spesso e sento la sua presenza accanto a me.” Io ho trovato conforto nella scrittura, diventata ancora di salvezza, ricettacolo della mia anima ferita, espressione liberatoria e a volte catartica. L’intenzione iniziale era quella di stilare un “diario del dolore e del lutto” relativo alle cinque settimane di malattia di Umberto. Le pagine, datate, scritte di getto fin dal primo giorno e con il cuore in preda all’angoscia e alla disperazione, riportavano fedelmente quanto riferito al telefono dai medici del reparto. Arrivata al giorno del trapasso, ho pensato di andare avanti – o meglio indietro – ripercorrendo con la memoria il mezzo secolo passato assieme a mio marito, e di infiltrarmi, clandestina pudica, negli anni precedenti al nostro incontro, grazie alle preziose testimonianze di chi l’aveva conosciuto, di quello che lui stesso mi aveva confidato e al ricco materiale iconografico. Così ho snellito le pagine del diario (dopo averle salvate in altro documento) e le ho collocate all’inizio di questo volume. Un omaggio all’amore della mia vita, Umberto Galvan, all’uomo, al geometra e al costruttore, scaturito dal desiderio di far conoscere gli ideali, il talento, le qualità e il prezioso scrigno di insegnamenti di questa persona così importante per me, per Sabrina, per i nostri nipoti Lorenzo e Federico, e per quanti lo frequentavano. E di sicuro anche per tanti altri che lo hanno apprezzato e amato. Ne è risultata questa “aifargoib”, una biografia scritta in ordine cronologico inverso, che partendo dalla morte (che per i cristiani è il dies natalis, l’inizio della vera vita), arriva alla nascita del Nostro, avvenuta il 15 dicembre 1941. Un tuffo senza salvagente dal presente al passato per poter risalire rinvigorita verso il futuro.

Capisco, marito mio amatissimo, di essermi assunta una notevole responsabilità nel raccontare la vita di una persona che non può “difendersi”! Se, in quest’opera c’è qualcosa che può urtare la tua sensibilità, dammi dall’alto la tua benevola benedizione, perché tutto ho scritto in buona fede.

La storia viene volutamente narrata a volte in prima persona, altre volte in terza, a volte al passato a volte col presente storico per consentire all’autrice un necessario distacco nel racconto di alcuni avvenimenti molto coinvolgenti e per offrire al lettore una visione da più punti di vista.

Gabriella Bertizzolo

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