10,00 €
Autore: Ester Ghione
Editore: Genesi Editrice
Formato: libro
Collana: I Frombolieri, 91
Pagine: 88
Pubblicazione: 2014
ISBN/EAN: 9788874144419
Memorabile viaggio nello spazio
Prefazione
La traslazione dal micro al macro cosmo è uno dei sortilegi che meglio rappresenta il mondo poetico di Ester Ghione. È un alfabeto delle cose che cambia la visione del mondo. Più esattamente è una traslitterazione che traduce il linguaggio dalla piccola alla grande proporzione degli eventi. La poetessa lo indica chiaramente nella poesia Quante, che si colloca al termine del libro: “Se posso contare / con gli occhi / e con le dita / nella piccola notte del cortile / almeno / settecento quindici stelle / quante brilleranno / nel cielo immenso di Dio?”. Non sarebbe corretto parlare di minimalismo poetico, anche se questa è di gran lunga la corrente letteraria egemone della letteratura italiana a partire dall’ultimo quarto dello scorso secolo per arrivare trionfalmente fino ai giorni nostri. Ester Ghione non è una minimalista nell’accezione letteraria del termine, che fa riferimento a quel tale slogan – le mie poesie non cambieranno il mondo – che funziona quasi come l’icona rappresentativa di un bene individuato versante della letteratura, in cui prevale la rinuncia del poeta a sollevare lo sguardo da terra e ad abbandonare la logica della rendicontazione spicciola delle cose e degli eventi della vita e della storia. Tuttavia, è vero che Ester Ghione assume come posizione di partenza della sua poesia i valori a detrarre, cioè la caduta dell’epicità ossia lo smarrimento della grandezza e la riduzione delle realtà alla misura minore dello scarto, come è splendidamente rappresentato in Degrado, ove si racconta la vicenda di una maglietta di pregiata fattura, che per ghiribizzo del destino è “caduta buttata gettata”, e che arriverà a scontare il degrado definitivo: “è un cencio ormai / sotto il gradino / mescolata / con i rifiuti / cicche / brandelli di carta / l’avanzo / d’un panino / una buccia”. L’intreccio poetico, però, non è mai minimalista. Infatti, in Ghione, a differenza dei minimalisti d’antan, il pesce nell’acquario che lei descrive – cioè il poeta catturato nel suo intimo confessionale – non ha per nulla perso la memoria dell’oceano da cui proviene ovvero a cui tende: emerge sempre la “sragione” profonda della sua sofferenza, derivante dal consumo dilettevole e struggente del tempo della vita inesorabilmente a perdere. Si veda al riguardo la poesia Palazzo Madama, che è una descrizione schietta e cinica dell’effimero mondano, a cui si giustappone, in chiave di dubitazione, la poesia dirimpettaia, I suoi anni, che dovrebbe rappresentare il salto fuori dall’acquario, con una sorta di escamotage dovuto alla magia della emozione poetica, forse. Pertanto, è in questo “profondo sragionamento” che avviene il sortilegio di trasformazione: il micro si trasforma in qualcosa di smisuratamente grande ed epico. Se proprio, per diletto citazionale, si dovesse fare una contestualizzazione d’attualità letteraria, allora il riferimento da proporre sarebbe quello dello scrittore americano Richard Ford, più propriamente un narratore, già vincitore del Pulitzer, che parte da una impostazione rigorosa di minimalismo per poi applicare due vie di fuga, date dalle accensioni liriche – che sono in comune con Ester Ghione – e dalle epiche eroiche di una middle class americana dal volto anonimo, che in Ester Ghione è sostituita da un lessico familiare dei luoghi e dei modi di ginzburghiana memoria.
La stoffa di Ester Ghione sta anche nella sua matrice geografica, quel provenire da lontane e mai desuete esperienze della linea ligustica, e quel suo vagheggiamento ligure di paesaggi assorti, luccicanti e ventosi, che sanno di ulivo e di salmastro, addirittura un genius loci sbarbariano in quel vagheggiamento insistito di Varigotti, il molo dedicato al regista Renato Castellani, “piccolo braccio teso / nello spazio / liquido del mare che amo”. Ma è il trionfo della ritrattistica d’ambiente che riempie di luce e di poesia queste splendide pagine, con rappresentazioni lievi, essenziali e perfette di Torino, la città che ha assunto in adozione la poetessa savonese di nascita. È la rappresentazione delle scene familiari, sovente evocate in ricordi lontani o al contrario contrapposti a un’attualità in decadenza, che proietta sui versi una soave luce di dolce nostalgia. È nel dignitoso riquadro di una dilettevole e chiaroscurale solitudine, di riflessione e di sogno, tra l’apporto della memoria e la fuga in avanti dell’immaginazione, che si dipingono le attese nel futuro, il sorriso verso la gioventù, di ogni ceto e di ogni provenienza, la tenera speranza in una svolta possibile sia al dà dell’angolo di strada sia al di là della caduta dell’orizzonte: l’utopia dell’alba che cova sotto la cenere ardente di questi bellissimi versi.
Sandro Gros-Pietro
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