PREFAZIONE

Tra le varie definizioni dell’eros trionfa ai tempi attuali la celebrazione dell’azione copulativa che rappresenta gli amanti come virtuosi ginnasti del sesso. Ma non è sempre stato così, e neppure oggi la moda si impone come regola universale. Poiché il gioco della seduzione amorosa è sempre stato nel trascorrere dei secoli la sublimazione del desiderio per antonomasia che si realizza in una simbiosi partecipativa di essere e di avere, di dare e di ricevere, di gioia e di dolore, di felicità e di afflizione: ciò finisce per trasumanar l’eros verso una sponda d’indefinita quintessenza dell’umanità, di molto superiore alla fisicità dell’atto amatorio, e dai confini incerti tra il mondo reale, da una parte, e l’interpretazione sovrana del desiderio umano circa la perfezione dell’essere, dall’altro lato. Il vero autentico amore è una declinazione in forme possibili dell’impossibile: ciò crea immensa gioia e ciò decade inevitabilmente in una catarsi dolorosa, ma anche purificatrice e rigeneratrice, che conduce a un arricchimento conclusivo, quand’anche abbia una soluzione tragica. L’amore è per i chimici un evento inconcepibile, infatti l’energia liberata appare superiore a quella impiegata, per cui andrebbe a farsi benedire la legge di Lavoisier, secondo la quale in un sistema chiuso, come quello amoroso, nulla si crea e nulla si distrugge, e tutto ciò che c’era prima si ritrova nella stessa identica massa anche dopo l’evento. Invece no, ciò non succede se il sistema chiuso è il regno di Eros, perché ogni storia d’amore produce uno sconvolgimento totale del sistema, che si arricchisce a dismisura e in modo esplosivo. Con buona pace di Edmondo De Amicis, amore e ginnastica, dunque, non sono termini identitari e neppure sequenziali, ma piuttosto anelli di una catena analogica forse improbabile.
L’atteggiamento giusto, a parere dello scrivente, per inoltrarsi nella splendida operetta amorosa di Paola Novaria, è dato da quella tale “gioia del mattino” con cui la scrittrice dischiude il sipario sul paesaggio poetico dell’amore, nel segno dello stringimento di un patto che suona come promessa e profferta di attesa, cioè di meta da raggiungere, all’atto dell’imbarcamento per Citera, nell’opulenza dell’arte e della natura che Watteau rese celebre e inimitabile: il murmure dei boschi e della marina si accorda con il fervore dei disegni di bellezza e di amore da perseguire, sicché lo scrigno è degno e le braccia col­me di frutti. S’inizia la catena analogica della poesia che compone l’alfabeto dei fatti e delle parole, capaci di coniugare insieme, come già intonavano poeti e musicisti in coro con Jean-Pierre Claris de Florian, plaisirs e chagrins d’amour. Dice la poetessa che “Al volgere di cicli / che non so prevedere / si fa erta la salita, la notte / mi mette alla prova”. Ed ecco che tanta dolcezza di sogno si infrange e patisce la morsa dell’amarezza: “Come se all’improvviso / mi fossi resa conto / che non stiamo insieme”. E nasce un progetto di sublimazione del desiderio amoroso: “Dai singhiozzi, in disparte, / io trarrò qualche verso”, perché, come dice Catullo, è difficile abbandonare d’acchito l’amore lungamente covato. È il momento del miele amaro: l’amore non corrisposto è rappresentato dalla porta chiusa, il tema struggente celebrato dalla poesia e dalla musica almeno quanto lo è quello del gioioso dischiudersi dell’alcova. La porta chiusa davanti alla quale il poeta lamenta la sua esclusione dalla gioia dell’amore è fino troppo facile da intendere come sia una delle più alte e antiche metafore della poesia. Lungo quella scala si sale fino al paradiso, che è l’hortus conclusus per antonomasia, così come si discende fino all’inferno. Non a caso Jean Paul Sartre usa la metafora di Porta chiusa per indicare l’inferno del celeberrimo suo lavoro teatrale ambientato all’interno di una stanza d’albergo. Ma sull’uscio sbarrato dell’amante si gioca anche qualcosa di squisitamente letterario, cioè si dichiara una definizione di poesia che elabora Tibullo, sulla scia d’onda dei neoteroi e di Catullo. Liberamente tradotto, dice Tibullo nelle sue lamentazioni per Nemesi: “Andatevene, Muse, se non tornate utili agli amanti: non vi onoro perché celebrate la guerra, e neppure canto l’orbita del sole né il ripetersi della luna nei suoi cicli. Coi carmi io cerco un modo facile di arrivare alla mia donna: se questi sono inutili, allora è inutile la poesia”. Quel per carmina quaero è, dunque, una dichiarazione di poetica: la poesia è intesa come ancella – o se si preferisce come vestale – dell’amore, è il canto davanti alla porta chiusa, che potrà aprirsi o potrà rimanere sbarrata per l’eternità, ciò è un aspetto di fortuna e di capriccio degli dèi che ci menano come giocattoli e, in fondo, ciò poco cale al poeta, perché è fondamentale, invece, intonare il canto davanti alla porta chiusa, che diviene metafora di quanto si diceva all’inizio del discorso ossia la perfetta sublimazione del desiderio estremo concepibile dagli esseri umani, quel tal dantesco trasumanar, cioè portare la carne sudata e palpitante, la materia che vive e che decade, a una dimensione superiore che già potrebbe essere il “più vedere” di Costanza.
Diventa superfluo, a questo punto, avvertire il lettore che il viaggio nelle pagine di Paola Novaria, tra le altre cose, è anche un esercizio da tastiera di filologia classica, espresso con la disinvoltura partecipativa dei recitativi sul libro d’ore, cioè dei percorsi conosciuti ad occhi chiusi, ma ogni volta rivissuti con la vertigine autentica dei paesaggi d’anima che essi sanno squadernare nella memoria letteraria dei poeti. I tanti poeti citati! La ridda delle voci che declamano davanti alla porta chiusa di Paola: sommi poeti d’altura che hanno fatto dell’alto stile il loro breviario essenziale, ma anche poeti on the road che testimoniano la fierezza del dolore con la confessione disarmata dei disastri della vita. Poeti incoronati negli esergo ovvero amalgamati nel testo: anche questo, direbbe Saba, è un esempio lucente di poesia onesta, ma oggi si dice, invece, che è una lezione corretta di filologia moderna. A chi scrive, sembra poi che Paola Novaria tocchi il massimo della sua espressione poetica nella dolcezza sfuggente delle sue evocazioni saffiche al canto della bellezza femminile, rappresentata non solo con tenera dolcezza di forme, ma anche col piglio severo e inappellabile della crudeltà di Diana o del lucido ragionamento di Atena. Poesia di altissimo pregio formale, raccolta in espressioni calibrate e sempre evocanti la memoria della metrica classica, su cui Novaria si è divertita a proporre una continua invenzione di scarti di stile e di richiami alle regole, fino a fare trionfare con semplicità una sorta di regola aurea: l’utilizzo di brevi misure versali per rappresentare l’immensità degli spazi della mente.

Sandro Gros-Pietro

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