Premio I Murazzi per l’inedito 2016 (Dignità di stampa)
Motivazione di Giuria

Poesia di dolce musicalità e amplissima cultura, carica di autentica umanità, capace di rinnovare l’alta tradizione della poesia italiana percorrendo strade nuove, con visioni luminose e penetranti riferite ai destini dell’umanità, verso cui il poeta esercita una strategia mirata di attenzione e di amore, con finezza di analisi psicologica e con felice efficacia di rappresentazione degli ambienti sia umani sia naturali, con un linguaggio poetico raffinato di esercitata ed erudita memoria letteraria sia nei confronti della letteratura italiana sia nei confronti della letteratura d’oltralpe.

 

Prefazione

La poesia di Antonio Rossi scatena la fantasia creatrice del Poeta con visioni surreali e racconti fantastici, nel vortice di immagini che turbinano come girandole colorate. In verità il colore che predomina è il bianco niveo, a cui si contrappone, per amore degli opposti, un nero tenebroso. Tuttavia, in lungo e in largo, nel profluvio dei versi, vi è un trionfo dell’intero arcobaleno, dal giallo, al verde, al rosso, al blu, all’azzurro, all’indaco, al viola. La festa dei colori è, dunque, la caratteristica principale di una poesia che è quasi con prepotenza una dichiarazione di surrealismo espressionista. L’immagine più adatta per rappresentare in metafora il grandioso sviluppo poematico di Antonio Rossi è quella di una gigantesca cascata che non esaurisce mai la sua forza di rovesciare nell’abisso dei significati un fiume prorompente di parole, per cui l’intero ambiente poetico rimane invaso da un vapore tattile di balenanti significazioni acquoree, liquide, umide, iridate ed evanescenti. Per prima cosa si impone la visione di un mondo totalmente immaginario, popolato da angeli bianchi, sia festosi sia tristi, i primi come quelli di William Blake e i secondi come l’angelo ferito di Hugo Simberg. Queste creature divine, colluse in un regime di coabitazione poetica con gli esseri umani, ricordano i Sonetti ad Orfeo e le Elegie duinesi di Rilke. Accanto agli angeli è quasi automatico che si sviluppino dei demoni, ora scatenati e sanguinari e altrove riservati e convertiti all’astensione dal crimine, in una continua alternanza di comportamenti e di soluzioni, che ricorda la ricerca del proprio ruolo fatta dai personaggi pirandelliani in cerca di autore. Ciò che appare acclarato nella poesia di Antonio Rossi è la suprema lezione tedesca impartita da Nietzsche e da Rilke, che è servita a modificare in modo definitivo lo scenario poetico su cui si affaccia il boccascena del Poeta: non c’è più il dominio di un Dio Pantacreatore assoluto, inventore e dominatore del cosmo, ma lo si ritrova piuttosto nei panni di un monarca destituito, cioè di una post-divinità collocata in roseo pensionamento, nell’agio e nel rispetto del suo illustre passato di devota venerazione ricevuta dai sudditi fedeli e sottomessi alla sua volontà, ma ora divenuto ininfluente sui destini del cosmo, il quale ultimo si sviluppa con una fioritura parossistica di creature e di eventi, ingigantite e moltiplicate dalla fantasia creatrice del Poeta.
Nel mondo poetico di Antonio Rossi vi è una tensione dinamica di movimento inarrestabile tra il bene e il male, che sono dipinti come categorie comuni dell’esistenza, sdoganati da ogni forma di gerarchia etica e semmai riverberati entrambi, e in eguale misura, dall’estetica della bellezza, per cui sia il bene sia il male possono produrre il fiore della creatività e dell’intelligenza poetica, come è descritto, sia pure con una maggiore enfasi in chiave erotica, nel tenebroso incubo prospettato da Pier Paolo Pasolini nel suo film più crudele e più intellettualistico, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Non per questo vi è crudeltà o sadismo o masochismo nella poesia di Antonio Rossi, che anzi appare totalmente affrancata dalla nevrosi tormentosa sulle radici del male che angustiò l’anima di Pasolini negli ultimi anni della sua sofferta e prestigiosa esistenza, ma ciò che è certo è che Antonio Rossi rappresenta, in tanta visione immaginaria, la presenza continua dei mostri del male che agiscono in contemporanea e quasi in collusione con i difensori del bene. Galleggiano, tra creature fantastiche oggetto di scatenata invenzione, le realtà orrende di Erode e di Hitler, di Mengele il medico dei lager soprannominato angelo della morte, i campi di concentramento di Bergen-Belsen e di Mauthausen, il ghetto di Varsavia, i crimini contro la Primavera di Praga, i crimini in Bosnia, il fungo di Hiroshima, “l’arca di Caronte”, il terrorismo di Al Fatah e Al Qaeda, lo Stige fiume infernale dell’odio. Tuttavia, è anche vero, sullo stesso campo visivo del poeta, in questo mondo così caratterizzato dalle creature e dalle infiorescenze della più azzardata fantasia, agiscono Gesù, i Re Magi, la grotta di Betlemme, Maometto, Anna Frank, Einstein, Stravinsky, Beethoven, Carducci e tanti altri simboli comunemente riconosciute come icone del bene.
La poesia di Antonio Rossi, contenuta nel libro Il giardino degli angeli scalzi, assume la forma tipica del poema, sia pure sviluppato in diversi capitoli: essa appare come il racconto di una storia infinita, senza capo e senza coda, come se fosse la rappresentazione di un cosmo che è privo di punti cardinali e di cronologia diversificante tra passato, presente e futuro, secondo una rappresentazione del mondo esistente e sensibile che piace agli astrofisici moderni, più ancora che ai poeti. Di molto poetico – anzi, di squisitamente letterario – c’è la tecnica del racconto, che ripropone sempre il meccanismo della favola per bimbi-adulti, con le allitterazioni, marcatamente ripetute e il tempo tipico della tradizione orale, quello sempre rivolto al passato imperfetto, con l’uso della formula classica del “c’era una volta…” o di altre formule equipollenti.
La morte è una protagonista preponderante del discorso poetico di Antonio Rossi e vale la pena citarne un mirabile passaggio: “La morte ci seguiva e ci baciava, ci raccontava favole incredibili, come una madre impura, / ci baciava sulle labbra iniettandoci lo sconcertante sapore animalesco del male, / la morte ci seguiva, ovunque, nelle viscere dell’anima, nelle vene scorticate, / ci seguiva, desiderosa di averci, incurante di amarci, la morte, la morte non aveva scrupoli”. Ma accanto alla morte interviene anche l’amore, non già i due estremi legati dal vincolo romantico di consequenzialità di amore-morte, tanto caro a Jacopo Ortis e al giovane Werther, bensì declamato come sogno d’estasi intensa e delicata, come è specificamente descritto nelle uniche due liriche d’amore, bellissime entrambe, Quando il mio cuore piange e Oltre quel cielo, di cui si raccomanda una incantata e partecipata lettura. Sandro Gros-Pietro

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