PREFAZIONE

Il regno dei morti è un’astrazione della mente umana che risale all’antichità dei tempi. Certamente, non è un artificio letterario, ma è precedente alla scoperta di qualsiasi linguaggio: risale alla consapevolezza della morte. Insieme all’uomo, sembra che al­cu­ni animali posseggano il concetto della morte. Tut­ti gli animali intuiscono le situazioni di pericolo e san­no distinguere la loro gravità. Ma alcuni di essi intuiscono che esiste una condizione ultimativa del pericolo, che è la morte. Studi su molti primati, ma anche su elefanti, scoiattoli, balene hanno convinto i naturalisti che gli animali – o al minimo un certo numero di specie fra loro – hanno la cognizione della morte, come stadio finale cui qualsiasi individuo vivente perviene, in un enigma irrisolvibile di do­man­de: perché non si risveglia? perché decade, nel fetore della carogna? perché non riapre gli occhi? Gli elefanti sono in grado di collegare gli ossi calcificati che avanzano dallo scheletro di un loro antenato con il ricordo dell’individuo cui appartenevano: hanno co­scienza della sua irrimediabile scomparsa, provano dolore e infinita melanconia a rimuovere con la proboscide ciò che resta del parente defunto. Non pos­siamo saperlo, ma non è da escludere che anche gli animali si chiedano dove sia finito lo spirito vitale che animava il corpo del compagno perduto, giungano ad evocarne il ricordo e a immaginarne il passaggio a una condizione ulteriore di non esistenza ov­vero di alterità. Per gli uomini si verifica addirittura una cultura di tale condizione extraterrena: per l’intera umanità, la città e la civiltà dei morti ha da sempre rappresentato un’importanza non inferiore a quella dedicata ai vivi. In alcune civiltà, come quella dell’antico Egitto, le opere architettoniche più im­ponenti, come le piramidi, erano dedicate al mondo dei morti. Il passaggio dai due regni – da quello della vita a quello della morte – si è sempre immaginato che avvenisse attraverso una porta invisibile agli oc­chi umani oppure con l’attraversamento di un fiume nascosto alla vista. In ogni caso si è sempre trattato di un passaggio a senso unico: non è possibile tornare indietro. La letteratura, come si sa, ha poi arricchito di infinita fantasia questa visione antropologica della morte come condizione di totale diversità ma anche di continuità con la vita. Gli eroi letterari sono andati e tornati più volte, in modo più o meno drammatico, da questo a quell’altro mondo, hanno ciò com­piuto il viaggio, in senso pieno e rivelatore: hanno cioè intrapreso l’avventura di conoscenza completa della vita e della non vita.

Nino Pinto, nel suo libro La porta invisibile, ci parla del sentimento di smarrimento, angoscia, dolore e orrore che ghermisce il cuore degli uomini quando essi pensano alla morte: il viaggio che non am­mette il ritorno, cioè la condizione di irrimediabile nostalgia, di insanabile dolore per la distanza con il mondo creato, divenuta improvvisamente definitiva e incolmabile. Pinto ce ne parla, come egli stesso am­monisce nella sua luminosa prefazione, in modo disgiunto dalle stratificazioni filosofiche religiose e letterarie che sull’argomento si sono depositate. Il poeta va al cuore del problema, raccoglie il nocciolo antropologico della fantasia umana, quale è stato fi­no dalla notte dei tempi, della nostra civiltà: ci dice dell’orrore e dell’atroce paura che la morte incute nell’atto in cui si manifesta e spoglia della vita un essere umano o meglio – per usare l’espressione del poeta – “spegne a caso una fiammella”. La suprema bellezza di Nino Pinto sta nella sua cristallina semplicità, nella forma pura e spoglia del dire che, come sempre avviene nei suoi libri, espone fatti sentimenti emozioni e situazioni nell’essenzialità del linguaggio asciutto, purificato da ogni orpello decorativo e da ogni ninnolo retorico. Tuttavia, il dettato è sempre vibrante nell’espressione delle emozioni pure, dei sentimenti forti, dei ragionamenti perfetti. Non solo l’uomo è rappresentato, con addolorata partecipazione, prigioniero di un’impotente solitudine davanti al silenzio implacabile della morte, ma il poeta ci illustra anche la varietà delle domande, tutte prive di ri­sposta, che turbinano nel cervello degli esseri umani. A partire dall’esergo tratto da Flaubert – La mort n’a peut-être pas plus des secrets à nous révéler que la vie? –, il poeta esplora le sensazioni di resa e le domande senza risposte che la Nera Signora suscita da sempre nel cuore degli uomini: “Oltrepassata quella soglia / si raggelano i pensieri / e il male qualunque male / non fa più male”, dice il poeta per rappresentare la condizione ultimativa di cui si è già detto. Anche il tempo sembra essersi definitivamente fermato, in grembo all’eternità: “Il tempo ch’è signore / assoluto della vita / ogni volta che giunge / davanti a quella porta / scornato è costretto / a tornarsene indietro” oppure si legge poco dopo, “Il tempo che correndo / tutto travolge / e dietro di sé / non lascia che rovine / a loro è dato / (non ultima fortuna) / di arrestarlo”. La morte diviene “Non prosecuzione / ma salto / in un’alterità totale / fortemente enigmatica”. E in questa diversità dal mondo vivente, di cui abbiamo documentata notizia, nascono le mille supposizioni popolari su quella che po­trebbe essere la condizione dei morti, di cui non ab­biamo alcuna contezza: “Dalle individue forme di vita / nuove entità rinascono al mistero”. E da qui na­sce lo scavo documentativo del poeta, non già rivolto al mondo delle ombre – come ci si aspetterebbe da un poeta che voglia imitare Omero, Virgilio, Ovidio o Dante e che voglia compiere un ennesimo viaggio rivelatore agli inferi ovvero in paradiso – ma nasce invece un viaggio rivolto alla coscienza e alla fantasia popolare degli uomini, che pensano alla morte con un sentimento indistinguibile di orrore e di attrazione. “Vedono infine la luce / o persi in un buio ancora più fitto / precipitano nel nulla?”. Nino Pinto declina le forme e le espressioni delle credenze popolari sulla morte, ne interpreta i dubbi enigmatici, le speranze, le terribili delusioni, gli amari scon­forti. Sono pagine bellissime, ricche di voci accorate che si interrogano sulla possibilità di dare un senso sia alle loro paure sia alle loro speranze: i morti e i vivi, alla fine, solidarizzano in un unico canto implorante circa il destino dell’umanità. E le voci dei morti che capolinano da queste pagine sono paragonabili alle scritte lapidarie scolpite sui sepolcri dell’antica Roma, che ancora oggi sono leggibili lungo l’Antica Appia e lungo altre strade di grande rilevanza ar­cheologica: moniti che inducono il viaggiatore – co­lui che passa in questa vita per raggiungere l’altra – a fermarsi e a riflettere sul significato complessivo del suo passaggio. Alla fine si ricompone un sentimento di rivalutazione e di risarcimento per l’esperienza di partecipazione alla vita: “Più che non esser mai / è comunque l’essere stati, / l’avere almeno / interpretato una parte, / qualunque sia toccata, / in questa infinita / tragicommedia.” e subito dopo la conclusione, di splendente lucentezza foscoliana: “E tuttavia finanche / da una tragica verità, / fiori cilestrini / da erba velenosa, / inattese rispuntano / le illusioni.”

La bellezza della porta invisibile di Nino Pinto sta nel racconto poematico realizzato per sapiente accumulo di frammenti poetici – secondo una architettura molecolare di costruzione del poema che sta tutta nelle corde dell’autore, fino dai suoi precedenti libri – di una memoria emotiva attinente la paura, lo stupore, l’orrore, l’enigma, l’immaginazione, l’accettazione e l’illusione che la morte suscita nel cuore degli uomini, per partecipare con il fascino di una parola vibrante e cristallina al lettore la storia infinita di possibilità evocative che l’uomo coltiva nel suo cuore perennemente incline ad ingannarsi con l’illusione di essere altro da ciò che realmente è, e infine a godere con la ragione della facondia artistica dei suoi consapevoli inganni.

Sandro Gros-Pietro

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