PREFAZIONE

Il libro di Poesia di Piera Carbone, Entrare nelle parole, si dipana lungo un filo di scrittura sbrogliato negli ultimi quasi quarant’anni, a principiare dal 1985 per giungere fino ai tempi attuali della contemporaneità. Si tratta di qualcosa di paragonabile al cordoncino di seta intrecciata usato dai gioiellieri per sostenere un pendente al collo della donna: tanto sottile, quanto tenace, nonché resistente all’usura. Per rimanere in metafora, il gioiello è il nucleo poetico che volta a volta viene incastonato al filo della scrittura, cioè la parola. Mentre la scrittura è il filo, tanto sottile, quanto tenace. È una scrittura elaborata nell’assenza totale dello stile ornativo. È una Poesia che rifiuta la costruzione in versi, l’individuazione della tematica, lo svolgimento testuale del soggetto poetico prescelto. Va detto, che, in anni coevi a questo modello di Poesia, è stata sperimentata – e la si adotta tuttora – anche una forma di prosa che rifiuta totalmente la trama del racconto. Bisogna risalire alle teorie di abbandono totale dell’estetismo del linguaggio poetico. Il Gruppo 63 a suo tempo mise a fuoco il problema centrale della Poesia moderna: la Poesia – e la letteratura in generale – “è un imponderabile che contraddice ogni programma”. Lo scri­ve Enzo Siciliano nella sua dotta prefazione all’antologia Poesia degli anni Settanta, che in verità arriva fino agli anni Ottanta e che, quindi, anticipa il corso degli eventi su cui si è mossa Piera Carbone: è l’utopia del contenutismo selvaggio, espressione sempre presa a prestito da Siciliano. Una libertà totale del discorso poetico, svincolato dagli obblighi di un tempo che costringevano il Poeta a contestualizzarsi nei canoni linguistici e storici – leggiamo pure politici – con opportuni riferimenti filosofici, religiosi o atei, nonché un abbozzo di scenari sociologici, per lo meno di orientamento civile. Tutto ciò è esalato al sole cocente della “libertà selvaggia” in pochi decenni, come si è prosciugato il lago di Aral in Asia: il linguaggio tradizionale della Poesia è progressivamente scomparso e si è dissolto in un vuoto dispersivo illimitato, che tuttavia è diventato un “pie­no di rigogli esistenziali”: fatti di vita, brevi indagini psicologiche, aspetti minori della grande sce­na del mondo, che vengono descritti in totale libertà dalla nuova Poesia, cioè senza più adottare alcun riferimento ai “canoni della scrittura creativa”, che hanno sempre svolto la funzione di specchio rivelatore e interpretativo della realtà del secolo in cui il Poeta vive. Ciò non accade più. Noi leggiamo una poesia di Piera Carbone e non possiamo immaginare il dove, il quando e il come e talvolta neppure la co­sa e il perché abbia animato il messaggio del Poeta. Qual è, allora, il valore della scrittura? Dobbiamo ri­salire all’anticipazione che ne ha fatto Andrei Belyj – noto non solo per il suo capolavoro, il romanzo Pietroburgo – ma anche per i suoi studi di critica letteraria, di teosofia e addirittura di mistica e di gnostica. Diceva lo scrittore russo che “la parola è espressione dei più segreti reconditi della natura”. La chiave sta, appunto, in questa lux in nux (luce nella noce) che emana la parola. Ed ecco il significato del titolo del libro di Piera Carbone: bisogna entrare nelle parole per avvertire l’emozione rivelatrice che il fonema stesso della parola possiede. Ritorniamo alla metafora dei cordoncini di seta: tali cordoncini sono le tecniche del linguaggio, ridotte a nuda essenzialità espressiva, senza alcun appiglio circostanziale. Ogni poesia – cioè ogni cordoncino di seta – reca appesa una gemma, cioè una parola ovvero una locuzione dentro cui si deve entrare, cosa che si potrà fare se si possiede la chiave. Il libro s’apre con l’invito a entrare nei vicoli dei versi dell’uomo Montale: questa gemma funziona da introibo, cioè ne è l’ouverture, che anticipa il motivo fondante dell’opera: cercare la natura delle parole. Troviamo tante espressioni poetiche dentro cui entrare. Vediamone alcune, anche prese a caso: davanti al suicidio di Primo Levi, noi siamo spettatori di questa scelta; l’onda è come il verso; l’atleta greco beve alla fontana dell’infelicità al di là della possibile vittoria; pietà e rancore sono in sinergia con caldo e freddo; all’angolo del crocevia c’è una bionda amazzone; al calare della sera rintocca un borsellino di piume; Era lì… un paese coi cani smil­zi; madri d’altri tempi, sorreggevano le travi; come gelatina spugnosa è la sua esistenza; la tua mente attraversa altri paesaggi; non c’è tempo e spazio nel quale collocare la tua e la mia presenza; i boschi ci ridaranno ginocchia sbucciate; uno sguardo gial­lo mi avesse sfiorato come Proserpina (qui il pensiero corre a Orfeo ed Euridice, che nel testo sono camuffati da Ade e Proserpina); Le maschere come veli di etere… ed è subito sera (il pensiero va a Salvatore Quasimodo); correre incontro ai doni nascosti nel vasto giardino (pensiero edenico); alla minaccia terrifica dei suoi dèi miti (offuscamento mitologico); La porta di casa schiude la pena del gior­no; anche gli alberi perdono la propria ombra; Mu­ta come una statua (esplicito richiamo alla Madre di Giuseppe Ungaretti); le campane suonano l’agonia del corteo (pensiero funerario conclusivo); Tutte le mattine del mondo / ti verrò incontro. / Tutte le mattine del mondo / berremo l’acqua dal profondo pozzo / all’ombra del grande giardino. / Rinascerò nel tuo giallo chiarore (pensiero di speranza, apertura, gioia).
Si noti che le prime quindici poesie coprono circa dieci anni fino al 1996, e sono quelle caratterizzate dalla maggiore esplosione di nessi analogici ed enigmatici; segue poi il gruppo delle poesie dell’ultimo ventennio, dal 1999 ai giorni nostri, la cui datazione si interrompe al 2016, che adombrano in qualche modo una positiva ripresa del contesto spazio-tempo della scrittura, pur senza rinunciare alla “libertà selvaggia” – per usare l’espressione storica di Enzo Siciliano, che oggi fa un po’ sorridere – e che in più in­troducono forme quasi lapidarie, come Rosa e Prendi cara ovvero in chiave aforistica.
La ricchezza esplosiva della fantasia creatrice di Piera Carbone è giustificata dall’obbiettivo di presentare la parola poetica nella sua nudità, come for­za naturale delle cose nominate – siano oggetti o siano astrazioni mentali o infine persone umane – in modo che la parola evochi nel lettore la lunga deriva ancestrale che essa si porta dietro, in un richiamo di echi che provengono dal passato ma che si proiettano nel futuro delle nostre conoscenze. Viene in tale modo restituito un valore gnostico alla poesia, che era il patrimonio primitivo della parola prima che essa venisse omogeneizzata nella piattezza del messaggio, abusato e liso, quotidiano.

Sandro Gros-Pietro