12,00 €
Autore: Liana de Luca
Editore: Genesi Editrice
Formato: libro
Collana: Le Scommesse,
Pagine: 112
Pubblicazione: 2008
ISBN/EAN: 9788874141395
Memorabile viaggio nello spazio
<B>PREFAZIONE</B>
Fino dall’antichità l’uomo ha cercato di conoscere gli eventi che verranno: come esiste una memoria del passato, può esistere una premonizione del futuro? Per rispondere alla domanda occorre riflettere sul modo con cui maturiamo contezza della realtà. Essa è conoscibile solo nell’attimo stesso in cui si manifesta. Ma l’attimo epifanico è immediato, più fugace di un lampo, scolora subito nel passato, per cui l’attualità è elaborata dalla mente solo come ricordo o al contrario come divinazione, cioè mediata dal soggetto che ne elucubra l’interpretazione logica. Liana De Luca ha perfetta consapevolezza che l’artista descrive sempre altra cosa dalla consistenza del mondo, in quanto è narrabile solo ciò che è immerso nel tempo, cioè il resoconto del passato o il sogno del futuro, ma non è descrivibile l’attualità, perché istantanea e senza tempo. Il poeta in particolare e l’artista in generale, invece, compiono il paradosso di fare coincidere la visione meditata delle cose con la realtà contemporanea delle cose, ma si sa che è una finzione visionaria. Ed è precisamente per questo motivo che Liana De Luca dedica il suo libro di poesia ai due più grandi geni della visionarietà della cultura italiana, cioè Dante Alighieri e Michelangelo Merisi, un poeta e un pittore. Che cosa hanno in comune due talenti così diversi, vissuti in secoli lontani l’uno dall’altro, con indole e cultura estremamente differenziate fra loro? Hanno in comune il ricorso alla visione per rappresentare la quotidianità, esattamente come teorizza Liana De Luca nel suo libro, <i>Della buona ventura</i>, che poi altro non vuole essere che un discorso intorno all’augurio di un futuro migliore, formula che racchiude in sé l’universalità di tutti i discorsi dell’uomo. A Dante è rivolta la dedica specifica del libro, contenuta nella perifrasi usata da Beatrice quando scende al Limbo per ingaggiare l’aiuto di Virgilio e nomina il Fiorentino come colui che è “l’amico mio e non della ventura”, è uomo amato dalla donna angelicata ma non è amato dalla “ventura”, cioè da ciò che accadrà in futuro. Per Caravaggio, invece, la citazione scelta non poteva altro che essere il quadro chiamato <i>Buona ventura</i>, in cui è rappresentata un’indovina ammaliatrice che incanta un giovane e ricco avventore, gli predice il futuro e con abile prestidigitazione gli sfila l’anello dal dito: “Con la mano appoggiata sul fianco / il giovane dal volto fidente / nel sorriso sornione della zingara / ascolta svelare i suoi sogni segreti / […] / Stregata dallo sguardo ambiguo / vaga la fantasia sotto le piume / mentre lei sfila dal dito l’anello”. Le due citazioni non sono scelte a caso, ma sono elette per l’esemplarità simbolica proprio perché l’una rovescia il discorso dell’altra. Dante riceve l’amore dalla donna, ma subisce il disamore della sorte; Caravaggio, al contrario, ci illustra una premonizione di sorte lusinghiera per l’uomo, ma ci mostra il disamore della donna che lo deruba. Già in questo accostamento delle due versioni sulla ventura riconosciamo il sorriso ironico della De Luca che osserva dal suo scrittoio il contraddittorio delle parti in causa e ci sembra ascoltarla mentre fa la parodia a Baudelaire – altro grande visionario! – e coniuga compiaciuta il di lui “mi contraddico”. In De Luca la confutazione delle affermazioni precedentemente fatte non ha mai intento mistificatorio, ma piuttosto di amplificazione del discorso, con aggiunta di un’apertura ironica e possibilista. L’antinomia, infatti, alimenta il piacere per le sorti in gioco della vita futura: c’è un impegno convinto alle fasi autentiche in svolgimento, ma c’è anche equidistanza di giudizio sugli esiti conclusivi. Gli esempi di contrasto nel libro sono tanti, per stili e per fondamenti diversi. Sia consentito farne uno solo per tutti, sull’onda della fatale dialettica tra vita e morte che fa da fondamento alla splendida poesia <i>La porta</i>. La poesia trae spunto da un periodo difficile di vita della scrittrice. Le citazioni, questa volta sono principalmente filmiche (oltre a un appoggio dantesco, quasi di rigore). Quella porta che si chiude, demanda al motivo zufolato, autentico capolavoro di Ennio Morricone, che fa da accompagnamento e da Leitmotiv in tutto il film <i>C’era una volta in America</i> di Sergio Leone. Nel film, si tratta della porta di un sepolcro, che si apre e si chiude, poi si riapre e si richiude, in un movimento controverso e insistito, che libera e che seppellisce il passato e il futuro della vita dei protagonisti del film, nella cornice di una rappresentazione che è ovviamente visionaria e metaforica. La seconda potentissima citazione cinematografica è riferita niente meno che a <i>2001: Odissea nello spazio</i>, di Stanley Kubrick, ed è sviluppata dalla giustapposizione della scrittrice che si osserva attraverso uno specchio, come accade all’unico superstite dell’astronave impazzita, che si contempla invecchiare allo specchio, mentre giace a letto immobilizzato all’interno di una visione già proiettata nel metafisico.
Vale la pena spendere ancora due parole sulla preferenza esercitata verso Dante e Caravaggio. Verso Dante, c’è poco da dire. Anzi, ce ne sarebbe troppo. De Luca è dantista fino nel midollo. Lo è per la scelta della scrittura esplosiva, per il rigore dell’espressione, per la visionarietà deflagrante con cui il sommo poeta rappresenta la commedia della mondanità e dell’extra-mondo, per la forza d’amore che dalla sua poesia promana verso il prossimo, per la sconfinata erudizione degli apparati di scrittura e per il processo moltiplicativo del mondo che essa realizza, per la felicità lapidaria delle sentenze e per l’infinita serqua di altre occasioni che fanno di Dante una costante non solo sempre presente nella poesia deluchiana, ma un vero e proprio conforto e stimolo di ispirazione per la scrittrice. Per Caravaggio, invece, gioca il fascino della sensualità e sensorialità, che sono sempre state componenti dominanti anche nella scrittura di De Luca, la cui poesia è ricca di suoni e odori, ma principalmente di colori e di giochi chiaroscurali, con sprazzi di luce solare alternati a sfondi oscuri o sovente funerei (anche in questo libro la morte non è fuori campo). La sensualità e l’amore per il colore non sono le uniche affinità caravaggesche alimentate nella poesia di De Luca, infatti, ha molto gioco anche l’intrigo realistico della ricostruzione visionaria del contesto, il parlare per cose e non per concetti, la personificazione del discorso e il ritratto altamente espressivo dei volti dei protagonisti che intervengono nelle vicende. Particolare fascino, oltre al naturalismo di cui è intrisa tutta l’opera di Caravaggio, suscita in De Luca l’alone di maledettismo di cui è circondata la vita e l’opera del pittore. La De Luca, infatti, non nasconde il suo debole per i “maledetti”, a incominciare da Baudelaire e per finire con Michelstaedter. Infine, c’è un ulteriore motivo di comunanza che è dato dall’indole bergamasca sia di Caravaggio sia di De Luca: un’indole facitrice, schietta, sanguigna. Si ricorda, al proposito, che De Luca ha lungamente vissuto nella città orobica, ove ha sviluppato la sua riservata <i>compalpitazione</i> calcistica a favore dell’Atalanta.
Il libro contiene la rassegna d’autore dei topoi essenziali di De Luca, quali il mare, la rappresentazione del quotidiano del poeta e del suo mondo di scrittura, il gioco letterario delle citazioni e delle appropriazioni testuali, l’elencazione di referti analogici della realtà e della letteratura, l’evocazione di personaggi mitici della letteratura vuoi sacra vuoi profana. Ognuno di questi argomenti meriterebbe uno sviluppo meditato e profondo, ma forse, quello che non si può trascurare è l’argomento del mare e dei suoi protagonisti tipici, come il gabbiano sulla riva marina. Questa volta si tratta di un gabbiano riservato, che ama contraddirsi, in quanto dapprima appare restio, ma poi si fa avanti per salutare la scrittrice, quando questa si allontana: “Ai miei inviti squittiva / con garbo ma riserbo e m’invitava / a proseguire per il nuoto mio. // Quando mi volsi sul far della riva / un ciuffo di ali bianco ondeggiante / si levò sulle bianche ali ondeggianti / e mi passò sul capo silenzioso”. Si noti come il movimento ripetitivo dell’onda del mare viene rappresentato con l’iterazione degli stessi vocaboli, però riferiti alle ali del gabbiano, in una sorta di allitterazione traslata. Sulla rappresentazione del mondo quotidiano del poeta ci sarebbe troppo da sbizzarrirsi in citazioni, perché tutto il libro, come i precedenti, è incentrato sull’io-poeta che diviene metafora del mondo e protagonista della vicenda. Appare superfluo rinnovare la raccomandazione di non confondere il racconto di sé che fa il poeta con l’autobiografismo. Infine, va sempre sottolineato come la rappresentazione del reale è visione del mondo attraverso la storia della cultura, cioè simbolizzata per exempla celebri, come accade nella poesia <i>Nostalgia della postura del loto</i>, in cui il disagio della scrittrice evoca con ironia la spossatezza patita da Giacobbe dopo avere combattuto tutta la notte contro l’angelo: “Legge nella Bibbia di Giacobbe / in lotta notturna con l’angelo / fino ad averne il femore slogato / e la divina benedizione”. L’orma della letteratura passata si rivela e si acchita in continuazione nei testi attraverso il gioco delle citazioni e delle appropriazioni testuali. In realtà è fuorviante definirlo un gioco, perché è realmente un metodo di lavoro e un orientamento di pensiero poetico: ‘pensare la poesia attraverso il pensiero dei poeti’, potrebbe essere questa la formula adottata da De Luca. Talvolta, ciò porta a realizzare dei veri omaggi ad autori del passato in chiave di rivisitazione grata e di riproposta di un noto ritmo, realizzato con nuove esecuzioni che raccolgono l’eco del passato, ciò che in campo musicale è un metodo diffusissimo di nuove composizioni e si chiama cover. Appartiene a questa soluzione la poesia <i>Melisenda</i>: “Meravigliosamente, / per un bascio di morte / vivo in grande allegranza. / Ardimentosamente / ho gabbato la sorte / e vinto la tristanza”, che riprende incipit e atmosfera della <i>Canzone V</i> di Jacopo da Lentini. In altre occasioni si tratta di vere appropriazioni testuali come avviene per il titolo mutuato da Steinbeck, <i>L’inverno del nostro scontento</i>, che troviamo riproposto e modificato nella poesia <i>Nulla è scontato</i>, ove non si arriva al suicidio del protagonista come invece organizza lo scrittore americano nel suo romanzo, ma viene ricostruita un’atmosfera di accidia e malumore che può demandare a quelle pagine. Casi simili sono anche altri, infatti, si può riconoscere un Tomasi di Lampedusa e addirittura un Gianni Morandi, il cantante italiano, citati in altro luogo poetico del libro. Per quanto attiene le elencazioni di referti analogici della realtà e della letteratura, va detto che questo è sicuramente uno dei tic letterari più distintivi di De Luca, che nel campo specifico è divenuta magistrale. Gli antesignani di tali elencazioni sono stati all’inizio dello scorso secolo i futuristi con le loro parole in libertà, ma perché divenissero moneta poetica di scambio comune bisogna attendere la neoavanguardia sessantottina che, come si sa, deve molto al futurismo marinettiano. La De Luca ne ha fatto una pratica da capolavoro di pazienza e d’intelligenza letteraria, perché ha complicato il gioco introducendo il gusto per l’aforisma e l’anagramma, talvolta anche coniugati insieme. Ci si trova davanti a un materiale poetico che non è più grezzo sovrabbondante abborracciato e urlato come erano all’origine le parole in libertà, ma al contrario è lavorato al cesello, selezionato e lucidato come piccoli gioielli linguistici di raro splendore, ciascuno perfezionato in autonomia semantica, ma tutti insieme riuniti nel caleidoscopico <i>musaico</i> compositivo, autentica opera ad appannaggio delle muse, si vedano al riguardo le preziose sezioni denominate <i>Aforismi letterari</i> e <i>Anagrammi</i>, cui andrebbe aggiunta sullo stesso piano quella degli <i>Haiku</i>. Circa l’evocazione e lo snaturamento di personaggi mitici che sono autentici capisaldi plurisecolari se non millenari della cultura occidentale, la De Luca ha una pratica di ispirazione che spazia sui tre campi della scrittura, poesia, prosa e saggistica. Per tutti i casi basti citare quelli della poesia, in <i>Luoghi e tempi</i>, <i>Mediterranee</i>, <i>La figlia dell’Olandese Volante</i>, e quelli della saggistica in <i>Donne di carta</i>. Anche nel presente libro abbiamo una breve galleria di personaggi epici, che in questo caso risalgono all’origine delle cose e che sono il seme dell’umanità nella triplice fede delle religioni dell’antico testamento. L’intento della scrittrice è quello di universalizzare il discorso poetico, attraverso le figure bibliche riunite in un arcobaleno aurorale che campisca l’intera vicenda umana, come già ha fatto con la scelta del titolo del libro, che, lo abbiamo detto, vuole essere un gesto cosmico, sospeso tra la speranza e la disillusione.
Vale la pena di concludere questa frettolosa carrellata tra i nuovi versi di Liana De Luca facendo qualche considerazione sui <i>Frattali</i>, di cui i primi due erano già stati anticipati sul n. 23 di <i>Vernice</i> di dicembre 2002. Il neologismo indica una figura geometrica che ha la specialità di riproporre sempre la simmetria interna in qualsiasi scala di grandezza la si riduca o ingrandisca, mediante spezzatura o moltiplicazione di una parte. È fuori discussione il fascino che la matematica e la geometria esercitano sulla scrittura di De Luca, basti pensare alla sensibilità metrica e all’attenzione dedicata dalla scrittrice alle forme complessive del discorso. Ma nei confronti del frattale la De Luca ha subito un’autentica fascinazione, che le ha procurato molti stimoli creativi. Per lei il frattale è divenuto una sorta di nuovo <i>iper-testo</i>, non più nell’accezione di documento di scrittura sgorgante da più autori, da più lingue, da più strumenti mediatici, ma nell’invenzione tutta sua di scrittura pluri-argomentativa, di cui si spezza ogni volta una parte che rifiorisce in altre parti, analogicamente collegate alle restanti, simmetricamente equipollenti o paritarie. Si tratta di una scrittura che cresce nelle sillabe e diminuisce nei versi, che si avvita come acrostico sui versi della prima strofa e che corre lungo le direttrici disperse e ritrovate di tante origini mitologiche e feticistiche della bellezza, tra cui, certamente, la più satirica e ironizzata è quella affidata alla mente cibernetica dei computer. Vi è un mirabile gioco di affinamento e di sconvolgimento dei significati, di accumulazione e di dispersione, di iniziazione e di perfezionamento definitivo delle soluzioni. Ancora una volta è il fascino per il punto d’incontro tra geometria e letteratura, la scoperta del canone del disordine, la simmetria delle asimmetrie del discorso poetico.
Ciò che suscita l’ammirazione del lettore in questo libro è la straordinaria forza di novità e di apertura alla vita che la scrittrice trasferisce nella pagina, senza mai scadere nei facili entusiasmi, ma mantenendo esercitato uno sguardo di ironia irridente per i tanti guai che la vita procura, i fraintendimenti, le contraddizioni, le stravolgenze e le irrisolvibili complicanze che costellano la strada di trappole e di inganni, per cui è sempre meglio dotarsi di bastone se si vuole andare un poco più rispettati lungo il proprio percorso. Un lungo percorso magistrale, di signora della poesia e della vita, quello che Liana De Luca dà qui conto di avere già compiuto e a cui allude; una promessa sorniona, con il sorriso beffardo del gatto di Lewis Carroll, per dirci che è solo piccola parte di quello che potrà ancora avvenire, con la buona ventura.
Sandro Gros-Pietro
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