PRESENTAZIONE

Il percorso compiuto da Teresa Titomanlio all’interno della poesia rappresenta un viaggio direzionato ad un approdo che era stato dall’autrice già presagito fin dai primordi. È un percorso non solo di crescita, ma anche di elevazione, come se rappresentasse una scala direzionata verso l’alto, cioè un cammino che conduce ad una vetta dalla quale ogni cosa acquista una maggiore significazione, gli spazi e i volumi si compongono in un’armoniosa ricostruzione del disegno complessivo della vita e dei suoi fondamentali valori. Senza bisogno di rifarsi al modello dantesco di viaggio extramondano intrapreso per giungere a concepire la visione poetica della divinità, è chiaro che la Titomanlio si è ispirata e si è fatta guidare nelle sue scelte stilistiche da un concetto di poesia elaborato per meglio interpretare la realtà del mondo e per orientarsi verso una nozione poetica di verità e di luce: l’ubi consistam del poeta, la sua patria, le sue idee e il suo linguaggio. Teresa Titomanlio ha il merito, che è di pochi poeti contemporanei, di non essersi curata affatto delle mode letterarie, se non che per qualche breve polemica di passaggio. Si è alimentata nella grande selva della poesia come un sacerdote druida avrebbe scelto le erbe del bo­sco, ora qui ora là, con cui distillare le pozioni e le ricette magiche, nel riserbo dignitoso delle personali convinzioni e inclinazioni, senza mai scimmiottare la vulgata popolare. Più avanti diremo specificamente delle stazioni poetiche presso cui la Titomanlio si è fermata a ristorarsi ovvero, fuori di metafora, cercheremo di indicare i principali autori di riferimento della poetessa, ma quello che urge chiarire come primo approccio al mondo poetico della scrittrice è il significato complessivo del suo lavoro, che si presenta come una grande costruzione caratterizzata da uno slancio in elevazione e ricorda le cattedrali gotiche o meglio la Sagrada Famiglia di Antoni Gaudì, perché in lei si verifica come nel capolavoro dell’architetto catalano che agli elementi di un’antica tradizione di stile tesa al cielo si sovrappongono le soluzioni, gli spunti, le necessità rivolte a terra, manifestazioni dell’attualità del mondo, e che sono personalizzati dalle soluzioni stilistiche della scrittrice. Teresa Titomanlio è una scrittrice che porta sulla pagina l’espressione piana, familiare, conversevole della comunicazione immediata, a cui conferisce il diritto di cittadinanza poetica con pari dignità del linguaggio aulico o anche soltanto dei lessici ricercati e raffinati, distillati dai poeti letterari che si adontano di riversare su parole usurate dall’abitudine i barbagli poetici dei loro ingegni. Non è così per la Titomanlio che parla in poesia con la stessa lingua che si usa per esprimersi nella vita, anche se, in lei, il linguaggio poetico è composto da una tematica molto più ampia e anche più evanescente di quella che è contenuta nella dialettica del quotidiano. È una poesia che esprime un’attesa: tempo di sosta, periodo sospeso verso un fine, aspettativa di un futuro immanente, che è nella ventura del mondo e del modo prossimo a venire. È una poesia non studiata per risarcire l’uomo dalla realtà deludente in cui vive, ma per traguardare gli errori compiuti nel mondo reale e per elaborare un modello di riferimento di vita costruito su valori emendati dagli inganni, dalle illusioni e dalle mancanze in cui continuamente cadiamo vittime. Su questa poesia, che aspira a una visione ontologica della vita, si affaccia a metà percorso di elevazione una prassi etica del buon vivere. Quasi a modo di proverbio, di raccomandazione, di monito alla prudenza e alla temperanza: alla scrittrice non scappa oc­casione per elaborare una morale manzoniana che, tra ironia e invettiva alla Savonarola, istruisce un suggerimento raccomandato per il buon lettore sui modi comportamentali da assumere nel vivere civile. Allora, quella di Titomanlio, è una poesia anche spessa di sapori e di gusti di buona civiltà, una poesia densa di mestiere di vita, tessuta sulla trama e arricchita nell’ordito dei modelli di vita consumati con la fatica dei secoli, sui quali la scrittrice esercita la memoria e distilla allusioni esemplari cui fa ri­fe­rimento esplicativo. In lei l’amore è la forza della me­moria. Ogni ricordo è una costruzione che poggia su quella palafitta: l’amore, che salva dall’affondamento nelle ac­que paludose dell’esistenza. L’amore fa nascere la me­moria, per lei l’uomo possiede dei ricordi perché è stato capace di amare e desidera ricordare per potere continuare ad amare. In lei l’amore è rivolto alla madre come è ri­volto alle figlie. Ma è anche amore rivolto all’uomo come oggetto di passione, e diviene allora forza di attrazione che sfugge al controllo della ragione, diviene un laccio che prende al di sopra – o al di sotto – del cervello, cui è dolce e avventuroso sapere cedere. Tuttavia, nella nostra scrittrice – comasca di origine e ligure di adozione – l’amore è principalmente una forza spirituale, una luce di ge­nerosità che si accende dentro l’amante a vantaggio del­l’amato, è anche una chiave di lettura più profonda del­la vita e del mondo circostante. Solo in ultima istanza l’amore ha il risvolto della seduzione dei sensi e dei piaceri della carne. Anche sotto questo profilo, cioè nel trattamento dell’eros e delle sue competenze, abbiamo modo di vedere come la Titomanlio non si lasci sedurre più di tan­to dalle mode del tempo in cui ha vissuto, un tempo ispirato al pubblico vagheggiamento dei piaceri sessuali esibiti sulla pagina come fossero indispensabili elementi di personalità dello scrittore, al contrario consegnati al riserbo intimo nella nostra poetessa, che ama sviluppare in poesia solo le doti morali e spirituali del rapporto amoroso. Nata su una terra di frontiera, per metà italiana e per metà svizzera, per metà lacustre e per metà marina, la Titomanlio si sente cittadina del mondo senza altra patria che non sia il mondo da lei ricostruito dentro se stessa, come in altro secolo e in altra parte del mondo è avvenuto a Emily Dickinson, quest’ultima fa parte del ristretto novero di scrittori da lei prediletti. In questo mondo uterino, nel senso di mondo interiorizzato e vivificato, risorto a nuova invenzione grazie alla fantasia creatrice del poeta, la natura assume un ruolo e un’importanza fondamentale. Non si tratta solo della natura come divinità su­periore, la casta diva lunare di belliniana memoria, che pu­re è presente negli omaggi della poetessa al suo ricco bagaglio di cultura. Non si limita a essere l’estasi delle stagioni vivaldiane, la luminescenza dei panorami solari degli espressionisti, l’armonia dell’adagio di Albinoni nei lenti movimenti delle creature e delle acque e delle nuvole, che pure riempiono di poesia queste pagine, in una continua corrispondenza tra arte e natura. Ma c’è dell’altro. C’è l’ansia per la natura ferita dalla sconsideratezza predona dell’uomo. C’è il grido per l’irrimediabile scempio di una natura che a poco a poco scompare, vittima dell’avidità di risorse esercitata dall’uomo. C’è la denuncia am­bientale, c’è la coscienza della responsabilità civile ver­so la natura. Nella poesia di Titomanlio c’è molta re­sponsabilità civile, ed anche in questo vi è una presa di posizione in serena indipendenza rispetto alle mode poetiche del tempo che predicano l’inattualità della poesia di coscienza civile. Titomanlio, al contrario, su tutto compie un velato ma puntiglioso richiamo alla responsabilità ci­vile dei poeti, nell’educazione dei giovani, nella proposta delle forme di svago, nella rappresentazione dell’amore, nella descrizione della natura. Ma vi è un campo in cui l’intonazione alla responsabilità civile diviene una lezione di civiltà e di arte, un’autentica rappresentazione della bellezza, informata al suggerimento etico del bene verso l’uomo: è il campo della realizzazione della donna e della fiducia nelle capacità, nelle virtù e nelle specifiche sensibilità delle donne, intese come portatrici di una forza civile serena e indomabile a vantaggio della vita presente e futura. Su di questo caratteristico versante della cultura, Teresa Titomanlio ha pienamente raggiunto la maturità e la sicurezza delle scrittrici italiane più note in tematiche di femminilità, come Alda Merini, Maria Luisa Spaziani, Liana De Luca e altre.
La concezione di questo libro ripercorre con pertinace rispetto la successione cronologica di pubblicazioni della poetessa. Qui sono riprodotte tutte le poesie pubblicate nell’arco dei quasi trent’anni che vanno dal primo libro edito nel 1981, Stagioni dell’anima, all’ultimo ap­parso nel 2002, Vigilia d’arte, cui si aggiungono le ultime Poesie inedite, che vedono la luce ora, nell’anno corrente, e che perfezionano il periodo complessivo di ventotto anni di produzione di poesia, equivalenti a più di una ge­nerazione di poeti. Eppure, se si prescinde dall’architettura di una poetica progettata in continua elevazione, vi è una sostanziale unitarietà organica di tutta l’opera costruita nel trentennio. Le sette pubblicazioni sono fedelmente rispettose degli originali e, per ossequio alle originarie condizioni di edizione, sono state riprodotte anche le prefazioni, che hanno mantenuto inalterata la loro pertinenza ai testi. Poiché vi è un disegno organico in crescendo, la Titomanlio è fra i pochi poeti che possono tranquillamente essere letti in successione cronologica, senza fare salti in avanti o riprese all’indietro.
La prima raccolta di versi, Stagioni dell’anima, na­sce in una situazione di taedium vitae che porta in sé qualche eco romantico di spleen, fortunatamente piuttosto ra­ro in Titomanlio, poetessa dantescamente ancorata agli elementi vivaci della realtà, ma anche lei, come il sommo Fiorentino, si immagina in mezzo al cammin di vita, assediata dall’uggiosità seccante di una vita corrosa dai meccanismi dell’abitudine, soffocata dalle scartoffie dell’ufficio, alienata dall’appropriazione di sé stessa, lontana dalla bellezza dell’arte: “Ogni ora perfetta mi sfugge / effimera e rara, come l’amore, / tutto ciò che non m’attrae / presto mi viene a noia”. In questa situazione di fastidio per l’esistenza, s’accende la prima luce della poesia, che è il pilastro fondante intorno al quale il poeta inizia a edificare la casa della poesia. Si tratta ovviamente dell’amore e, con l’amore, il potere di immaginazione e di evocazione della memoria: “Non conosco / il sapore della tua bocca, / il tuo calore nell’amplesso / d’un amore ricambiato, // eppure sono certa / che t’amo e m’accontento / d’immaginare tutto / con il pensiero intenso”. Intorno al calore dell’eros nasce il conforto della ricerca artistica, il riconoscimento della bellezza, le virtù dell’arte, di cui vie­ne portato come esempio il canto lirico di Maria Callas.
Nella seconda raccolta, Disagio sulla terra, uscita tre anni dopo nel 1984, la Titomanlio affianca alla condizione di molestia verso la vita per combattere la quale ha fatto ricorso alla poesia, una nuova poetica di incontro verso il prossimo e di apertura alle vicende del mondo. La poesia, allora, si apre a soluzioni di racconto, di narrazione del quotidiano e, proprio come accade a Shéhérazade nelle Mille e una notte, è grazie alla possibilità di raccontare che si libera la vita dalla morte, cioè, fuori di metafora, il racconto conferisce forza vivida e splendente al grigiore e alla melanconia della vita. In questa nuova raccolta, come acutamente sottolinea nella prefazione Fulvio Castellani, la poetessa “capta il sogno” e ne scopre il po­te­re taumaturgico, cioè la capacità miracolosa che il so­gno sviluppa di liberare l’uomo dai vincoli ristretti della realtà e di moltiplicargli le forze con cui agire nel mondo. Gli esempi di autori su cui Titomanlio propone al lettore di riflettere sono il poeta Eugenio Montale e la filosofa Simone Weil, i cui cahiers vengono proposti come autentica traccia di ricerca della verità: “[…] E così, con ali di mente / libera, resa leggera e trasparente / spendere bene la vita, componendo / “cahiers” inondati di luce”. Si af­fac­cia subito alla mente della poetessa il monito evangelico contenuto in Matteo di non gettare le perle ai porci, nella convinzione che non tutto è fatto per tutti, pertanto non tutte le verità ovvero i sogni cui la poesia può condurre sono cibo apprezzato da tutte le bocche. Del resto, la poesia deve fare i conti con la realtà anche nella gerarchia di priorità della poetessa: “Ci sono le stoviglie da lavare / c’è ancora da stirare, le ragazzine / non ce la fanno a finire i compiti / da sole. Domani poi mi attenderà / una grigia mattina in ufficio: messaggi / circolari piani e statistiche. / E tu, che per me conti più di tutto / che nella scala personale dei valori / sei la prima, resti ultima, poesia”.
Il terzo libro di poesie, Privilegio di un rifugio, esce dopo solo due anni, nel 1986. In esso la costruzione della casa di poesia si arricchisce del rifugio. Fuori di metafora, si tratta del covo segreto, lo spazio ideale della mente, in cui il poeta elabora la forza codificante del linguaggio che rinomina la realtà. Tutto diviene un nuovo codice di nominazione delle cose, la verità si esprime per formule e per locuzioni, un percorso di invenzione simile al formulario segreto, proprio come avviene in una delle più belle ed enigmatiche menti del secolo, quella del matematico John Nash, sulla cui vita Ron Howard ha girato il film A beautiful mind, in cui lo si vede attaccare alle pareti di casa infinite teorie di foglietti contenenti formule fatte di parole e di vicende apparentemente ordinarie, ma in grado di interpretare una realtà invisibile: “In era di rifugi antiatomici / dispongo di antidiluviano / all’apparenza modesto rifugio / ma d’inestimabile valore / per me e pochi altri sul pianeta. / È in esso che riverso – servendomi / del verso – gioie e malumori. / Stacco dalle pareti manciate / di parole e le dispongo in ordine / sparso e insieme predeterminato”. Nella prefazione al libro, il poeta e critico Guglielmo Carnemolla intuisce bene il valore rivelatore che la poetessa attribuisce alla condizione di “convalescenza” come riscatto laico dalla condizione endemica di dolore che avvolge tutta l’esistenza: “Si può dire fortunato chi riesce / a raggiungere sempre quello stato / di semigrazia: la convalescenza”. Vi sono precisi ascendenti di letture in questo stato di convalescenza di freudiana memoria che germoglia nella poesia di Titomanlio, precisamente vi è un riferimento al romanzo epistolare Herzog di Saul Bellow, come osserva il già citato prefatore, ma vi è anche, seppure in nuce, un più complesso e articolato riferimento all’opera in prosa di Vincenzo Cardarellli, Solitario in Arcadia, come rileverà successivamente Ferruccio Masci, nella prefazione a Vigilia d’arte. La scienza e l’arte si uniscono solidalmente nell’azione di inveramento che l’uomo conduce: “Due mani si uniscono / e le loro dita si annodano / in una stretta sa­cra suprema. / Sono l’arte e la scienza / che s’incontrano sul percorso / della vita.”
Nel quarto libro, Nell’impeto del verso, del 1994, prendono spazio le tematiche civili, sociali, ambientali, ed emerge in modo più delineato ed esplicito l’omaggio di lettura e di ispirazione nei confronti di Marina Cvetaeva, che è sicuramente una delle poetesse predilette dalla scrittrice. Il sentimento dell’attesa e, quindi, dell’aspettativa e dell’impegno, che è centrale nella poetica di Cvetaeva, l’eterna ribelle che ha inteso impegnarsi in tutti modi per raggiungere la propria libertà di azione subendo la sconfitta dell’eroina suicida, si riverbera nei versi della poetessa di Como: “Noi che sappiamo attendere / che risplenda l’asfalto delle strade / che morbida pioggia scenda sulla pelle / arida di chi più non traspira / che gli oceani che volevano / allontanarci / ci regalino vicinanze stupende / – oltre il tempo e lo spazio – / estasi incancellabili / noi che sappiamo attendere / siamo solo tu ed io”. Ma tutto il libro conferma la necessità di impegnare la poesia al di fuori dell’autobiografismo del poeta, perché occorre che il poeta osservi il mondo circostante: “Non posso più guardare soltanto / dentro me stessa. Mi sono già studiata / a sufficienza. Troppo complessa / multiforme bizzarra / è la realtà che mi circonda”. Trovano così cittadinanza poetica dentro i versi i problemi della violenza quotidiana nel segreto delle stanze famigliari come negli spazi aperti della pubblica via, gli allarmi drammatici per il depauperamento delle risorse non rinnovabili del pianeta e per l’avvelenamento degli ambienti naturali; la guerra quotidiana contro la delinquenza organizzata in cosche malavitose e in consorterie del malaffare; la disperazione giovanile per la mancanza di sbocchi occupazionali e per l’impossibilità di intraprendere la costruzione del loro futuro. Infine, osserva bene Enzo Concardi nella prefazione del libro che “Nell’impeto del verso ci presenta anche ricostruzioni ambientali e paesaggistiche, svelando una vena naturalistica sincera e sentita”.
Si è già detto che Emily Dickinson rappresenta un modello di poesia al femminile per la Titomanlio: un mo­dello etereo, riflessivo, sognante, delicato e con qualche elemento di evanescenza. Si è anche detto che il se­condo polo di riferimento del femminino, per la nostra poetessa, è rappresentato dalla Cvetaeva, scrittrice ribelle, combattiva, determinata, passionale negli amori maschili e femminili, generosa nel dono di sé verso la vita, verso la Storia, verso la patria irriconoscente e anzi crudele nel giudicarla con disapprovazione e nell’imputarle colpe assurde di tradimento politico e civile. Nel quinto libro, Misura come miseria, uscito nel 1996, si sviluppa nel testo un’ideale dialettica tra i due modelli di riferimento che configurano anche due modi diversi di comportamento all’interno della società e ne nasce una poesia che è orientata all’elaborazione di un’etica sociale e di una estetica filosofica valide per l’uomo moderno – e ancora meglio per la donna. L’assioma da cui la scrittrice parte è che la mi­sura del mondo in termini di quantità esprimibili con nu­meri, indici o altre categorie oggettive di grandezza non è sufficiente a fare il conto dei valori umani più importanti, i quali sono rappresentati da situazioni di qualità anziché di quantità, e pertanto richiedono un viaggio intorno alle origini e alle espressioni della bellezza, dell’armonia, dell’amore, dell’ansia e dell’inquietudine dell’esistenza. Di­ce bene nella sua luminosa prefazione Vincenzo Bendinelli che “I valori interiori di Teresa Titomanlio parlano da sé, ci indicano la sua ansia di sentirsi viva, di poter ap­parire utile più agli altri che a sé”: si rafforza e si amplia quella poetica d’incontro verso gli altri e di apertura verso il mondo, di cui abbiamo già riferito fin dai tempi del secondo libro.
Il premio Nobel per la letteratura Gabriela Mistral è la scrittrice che, probabilmente, ha ispirato più da vicino l’inclinazione di Titomanlio a sviluppare una poesia in forma piana di racconto, di favola, di narrazione semplice e lineare, ma anche drammatica, con una presenza in­combente del dolore e della morte, e con un intento pedagogico rivolto ai giovani. Il sesto libro di poesie, Creazione e passione, uscito nel 1999, volutamente enfatizza il ruolo della poesia come indispensabile viatico per so­stenere l’uomo nel viaggio della vita, che altro non è se non una continuazione. Più esattamente, la vita umana con­siste nel compimento portato fino a conclusione definitiva della creazione attuata con la nascita: come afferma la Bibbia, all’uomo è demandato continuare l’idea iniziale della creazione. Vi è un filo rosso di congiungimento inin­terrotto tra la creazione originaria, il dolore che ne consegue, la convalescenza, la creazione artistica, il perseguimento definitivo e la conclusione dell’esistenza. Nella creazione poetica, attraverso la catena di parole che divengono discorso sulla vita e che in essa si inverano, si rivive la creazione: “È concesso sentirsi per un attimo / divini, partecipi del mistero / della creazione del mondo?”. Questo concetto viene sottolineato anche da Guido Miano, editore e critico, nella prefazione al libro: “Creazione e passione, coerenza e adesione ai toni quasi sommessi confermano le istanze etiche che connotano i testi precedenti, ma ponendosi ora il quesito se la creazione artistica possa in qualche modo renderci ‘partecipi del mistero / della creazione del mondo’.”
In Vigilia d’arte, che esce nel 2002, la costruzione poetica di Teresa Titomanlio si rivela nella ricchezza ac­cumulata delle articolazioni, complessità, approdi, proposte, come discorso poetico complessivo, di ricapitolazione e di rilancio, dei temi affrontati nel carico degli anni e delle esperienze. Lo scrittore e regista Ferruccio Masci ne fornisce puntiglioso riscontro nella sua prefazione, che rimane lo studio più approfondito e competente sulla poetica di Teresa Titomanlio. Il poeta eletto a simbolo di orientamento del gusto e della ricerca è Vincenzo Cardarelli, che diviene icona della poesia moderna e materializzazione del pensiero poetante. Non si può dire meglio di come ha saputo comunicare Ferruccio Masci, che altrove è riprodotto nella totalità delle espressioni, ma che qui vale l’occasione di citare nel punto saliente, quello della concezione epica e tragica della figura del poeta: “L’ambito mitopoetico dell’artista, indipendentemente dal valore tributatogli dalla cultura del momento, rimane una sorta di acropoli eretta sopra la città, ad indicare la via sopra il cielo senza rinnegare le salde radici che la legano al mondo circostante, ma tanto più insigne si innalza l’acropoli coi suoi templi, tanto più solitaria e dolente si fa l’anima del poeta – officiatore d’arte che la abita.” Con la prudenza di riconoscere, nell’anima classica di Masci, l’allusione esercitata nel vocabolo di città, appositamente chiamato per demandare alla civitas degli antichi, intraducibile sostantivo in cui convivono sia la materialità della città sia l’immaterialità della civiltà, su entrambe si eleva l’acropoli del poeta e la sua connessa e inevitabile dannazione di solitudine, che si trasforma nella foscoliana confraternita di deputati alle egregie cose per la mente dei grandi, ma solo nei confronti di coloro che superano in­denni l’erosione polverosa dei secoli.
Il libro si conclude con le splendide poesie inedite che organizzano un ideale rondeau conclusivo sul tema centrale della poesia di Titomanlio, la poetica d’incontro, qui espressa anche in termini di frequentazione, e con una ripresa del trinomio fondante dei valori della poetessa: poesia, amore e gioia, i tre elementi essenziali della vita dello spirito, secondo la scrittrice. La gioia viene volutamente richiamata nella sua accezione laica che è stata assunta, non senza velatura di polemiche religiose, quale emblema esemplare di tutta la civiltà europea, con l’Inno alla gioia, musicato da Beethoven sulle parole di Schiller, e che il parlamento europeo ha adottato come canto ufficiale dell’Unione europea.

Sandro Gros-Pietro

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