PREFAZIONE

Che il mondo sarà salvato dalla bellezza è la fede del principe Myskin, nei barlumi di saggezza coltivati lungo l’avventura di pazzia della sua vita di uomo buono, il Cristo della modernità per Dovstoevskij. L’affermazione si colloca nell’atmosfera dell’idealismo romantico e dei grandi ideali inerenti l’Assoluto, la Libertà e il Bello. Ovviamente, il trionfo dell’idea sulla realtà fenomenica ha una grandiosa ricaduta anche in poesia. Ma qualcosa di parodistico sta nell’affermazione che la poesia salverà il mondo, al punto che ci credeva e non ci credeva lo stesso Octavio Paz, grande innovatore dell’arte della comunicazione in versi. Noi sappiamo che oggi, l’espressione la poesia salverà il mondo si è evoluta ed è esalata in uno slogan che fa da marchio di impresa a più di una premiata forneria poetica ovvero ad alcuni picareschi avventurieri della parola, e inoltre funziona come richiamo ecumenico per il ritrovo sull’Isola di Citera da parte dei globetrotter della poesia mondiale: roba da impenitenti figli dei fiori, ormai con la sciatica e seri problemi di prostata. Sono tigri di carta, per Andrea Aloi – che non è dimentico della sua natura irrimediabilmente consacrata alla sferza della satira, neppure quando indossa il saio sacerdotale del poeta – le grandi ideologie dei vati, le loro concettose weltanschauung o visioni assolute del mondo, con cui spiegare in un libretto – non necessariamente di rosso maoista, anche se all’autore non suonerebbe del tutto sgradito – tutte le contraddizioni del mondo, riordinarle e armonizzarle epistemologicamente verso l’alba salvifica di un sol dell’avvenire che – non si esclude del tutto – prima o poi possa in qualche modo palesarsi all’orizzonte. Sempre il Grande Timoniere – già citato pocanzi in nuce – aveva definito tigri di carta l’armamentario bellico e il caravanserraglio ideologico-culturale delle democrazie corrotte dal capitalismo: fiere minacciose e imbelli, sostanzialmente carnascialesche. La metafora serve ad Andrea Aloi per illustrare le illusioni & illuminazioni dei poeti – vogliamo intenderle così? si tratterebbe della “cassetta dei ferri” del poeta moderno, cioè del poeta che è “decli-nato” dopo l’asse ideologico Foscolo-Rimbaud.
Che cosa rimane, nella cassetta degli attrezzi, a questo stagnaro dei flussi di vita: il poeta? Non già la chiave a stella, come operosamente e piamente si augurava Primo Levi, bensì un campionario di tigri di carta. Dunque, l’intento critico di Aloi è generoso ed è grandioso: occorre farsi coraggio con quello che ci rimane di una cultura sostanzialmente falsata e in­gannatrice, come fosse una quinta teatrale dismessa. Non è affatto una posizione nichilista e neppure l’intreccio fantastico di una sopravvivenza da day after. È, invece, l’inizio di una poesia onesta, di sabiana memoria. Una poesia che non sia puro estetismo della parola letteraria né spettacolo di erudizione culturale né enciclopedia del folclore e degli usi e costumi popolari, ma che sappia al contrario proporsi co­me fondamento di indagine conoscitiva e demistificante delle falsità che ci assediano, in modo da scoprire e godere delle piccole verità che ci sarebbe concesso di conoscere se non fossimo preda di improbabili incantamenti; una poesia che sveli ai nostri sensi il sapore breve, intenso, drammatico e dolce di essere una creatura autentica e irripetibile che si consuma in un attimo e che scomparirà per sempre, ma in quell’attimo può compiere il miracolo, perché può maturare la coscienza magica di tutto ciò che esiste nel presente, di ciò che è esistito nel passato e di ciò che esisterà in futuro; in aggiunta, è anche capace di immaginarsi una pluralità di mondi alternativi, che forse non sono mai esistiti, né mai lo saranno. La poesia, dunque, serve a salvaguardare questa magnifica creatura, l’uomo, capace di compiere un simile miracolo di conoscenza, nell’attimo sfuggente di una sola vita. E per riuscirci, il poeta dovrà muoversi at­traverso la ridda di tigri di carta – illecebre e falsità – che l’uomo stesso si è costruito tutto attorno a sé, fintantoché giungerà al suo bow window, la finestra ad arco, da cui osservare protetto la meraviglia del mondo che lo circonda. Si tratta, allora, di una poesia della memoria, ma non già di quella letteraria, bensì della memoria fenomenica ed empirica, quella che, tuttavia con accenti quasi metafisici, si definisce memoria della Vita. E mirabilmente la vita inizia con un omaggio alla morte, quella di Pietro detto Piero, di cui si evoca il ricordo ordinario e casalingo: “Lo rivedo in ordine / il buon nebbiolo, litri neri in parata / dritti sul mobile / a fianco dei fuochi. / Passati sei mesi / casa tua riapre, / fratello primo / somatica copia / e i giorni sospesi / han messo i sigilli / alla scena / del fine di cena. / Il museo fermo, / disabitato / di un congedo”. Sono poesie che mettono a fuoco l’immagine sull’obiettivo primario dell’autenticità e dell’appartenenza, personale e domestica, ma già sfo­cata in un alone di rappresentazione mitopoietica, e che sembrano intonate all’eco di Woodie Guthrie, questa terra è la mia terra: “Servono una presa di pietà / solo per uso personale / e un grammo di memoria / meglio se d’origine casuale, guarda l’attempata lentezza / del bimbo elementare, / e la stringa fu due petali / e due cordini mai eguali”. Nell’incomprensibile scandalo del dolore – che è la malta comune di coesione della vita di “tutti i fratelli, / pure i meno amati, sono ami nella pelle” – si muove la vaghezza di una fuga sopramondana, subito contraddetta: “Non provare a pesare / ogni dolente bisbiglio, sarebbe folle pretesa / d’essere facile Cristo / non più male invocato / ma incarnato per tutti / pensa l’onda elettrica / di spalancate coscienze / arare l’asse terrestre, un meteorite muto / dalla atomica fiamma. / L’antico Timore di Dio”. Ecco, dunque, che riaffiora quella tale tigre di carta – il timor dei – che ha mietuto violenza e dolenti bisbigli nei passati secoli e probabilmente ne mieterà altrettanta nei futuri. Ma l’obbiettivo a cui cerca di traguardare il poeta è un approdo semplice e mitico, nel contempo, come è bene illustrato nella poesia che si chiama Ricevuto dono e che vale la pena di richiamare per intero: “Il compito è insegnare / a ben onorare la vita, / sancito dovere e diritto / d’ammaestrare il mistero / e indovinarsi la Luce, il tuo ricevuto dono. In eterno o in presente, / in fede o senza numi, / tieni sazia la coscienza / del nucleo tuo potente / e lenita sarà la paura”. Parrebbe un proverbio biblico, cioè una ricetta di saggezza e di verità o più semplicemente un tentativo di interpretazione e di rasserenamento delle grandi dubitazioni che sconvolgono con ansie irrisolvibili la mente umana, ed è, in realtà, una definizione di poetica o meglio un’istruzione per l’uso corretto della poesia e del suo impiego utile nella vita.

Sandro Gros-Pietro

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