Prefazione

Anzitutto un desiderio, anzi un sogno afilologico, ucronico e controfattuale: in tempi nei quali continua ad andar di moda la Virtual History di Niall Ferguson – alla faccia dei tre lustri dalla sua uscita –, ciò non dovrebbe stupire. Il mio sogno sarebbe di vederla almeno virtualmente ricostruita, la tomba di Giulio II, nella sua versione più maestosa e complessa, con tutti gli elementi: o almeno con quelli che conosciamo. Una o molte ricostruzioni ideali, ipotetiche, virtuali, fantastiche: proseguire l’opera del Maestro, restaurarne l’inesistente e magari l’improbabile ma non impossibile fino all’aperta, sfacciata, innamorata falsificazione. Riunire le sparse membra di quel capolavoro che avrebbe dovuto essere altra cosa da quello che vediamo in San Pietro in Vincoli, far finalmente reincontrare dopo mezzo millennio i quattro Giganti, o Prigioni, della Galleria dell’Accademia con i loro tragici colossali fratelli del Louvre e sistemarli attorno al Mosè. La tecnica virtuale può spostare come vuole quegli enormi massi sbozzati, quei giganteschi mostri antropomorfi che sembrano volersi liberare della montagna che li trattiene ancora e uscirne solo a fatica. Magari, forse, riluttanti.
Ma come si fa a tornare al progetto originario, o magari a quello che sta all’apice dell’incontro fra la megalomania del pontefice e quella dell’artista? Il fatto è che Michelangelo – Maestro sommo, come sappiamo, di tutto: anche e soprattutto della “tecnica a levare” –, nel quarantennio di gestazione di quella che sarà davvero la tragedia della sua vita, continuò a lavorare a quell’opera che, come altre sue, sarebbe rimasta incompiuta, riducendone le dimensioni e facendone levitare i costi. Levava marmo al mausoleo e oro ai discendenti di papa Giulio. Intanto, faceva altro: eccome! Papa Giulio II gli aveva affidato la costruzione della sua tomba nella chiesa romana dalla quale gli proveniva il titolo cardinalizio proprio nel medesimo fatidico 1508, l’anno nel quale la sua statua bronzea a Bologna, sulla facciata di San Petronio, era stata distrutta. Già sessantacinquenne – una bella età, ai primi del Cinquecento… –, l’indomito pontefice sapeva da una parte di dover cominciar a pensare alle sue stesse esequie, e quindi a un sepolcro, anzi a un mausoleo, ma da un’altra bruciava dalla voglia di vendicarsi dei suoi nemici e di trionfare su di loro. Fra una guerra e l’altra, contro i veneziani e poi contro i francesi, concepì e commissionò al “suo” scultore – che pur non voleva dipingere – due grandi opere artistiche e anche teologiche, da portar avanti insieme: la tomba da scolpire combinando architettura e scultura e la volta della Cappella Sistina da affrescare secondo un programma scritturale e simbolico di altissima complessità. È difficile ammirare i venti giovani “ignudi” dipinti al sommo dei pilastri che scandiscono le nove scene bibliche reggendo pesanti ghirlande senza andar con il pensiero a quelle masse scolpite, a quei muscoli tesi, a quei volti disperatamente – ma, talora, volontariamente? – incompiuti: è una specie di nube di marmo grezzo e tormentato quella che avvolge le teste e i volti dei Prigioni, come quella del Giorno nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo. Che cosa esprimono quei volti sbozzati o nascosti, quelle forme incompiute? Fretta, stanchezza, caduta d’ispirazione, rabbia, dolore, desiderio di ribellione e di vendetta? “Ribellarsi: ecco la nobiltà dello schiavo”, sentenzia Nietzsche nell’Also sprach Zarathustra. Ma chi sono i Ribelli? Nella mitologia greca, non meno che nell’angelologia cristiana, sono i Rèprobi, i Dannati, i Traditori del Volere Divino…
Ma proprio questo è il punto. Michelangelo passa un quarantennio della sua lunga vita discutendo con gli eredi di casa della Rovere, cambiando i piani e i disegni del mausoleo, scalpellando enormi massi di marmo e poi lasciandoli da parte mentre dipinge controvoglia la Sistina – il soffitto prima, il Giudizio Universale poi – e scolpisce e modella la Sacrestia Nuova. Siamo sicuri di essere stati noi a inventare la “poetica del non-finito”? O che quei volti incompiuti non siano stati tali semplicemente perché non si voleva, non si poteva, non si doveva conferir loro un’espressione? Che non siano il programmato segno di un’impossibilità a terminare, o di una rivolta contro la volontà dei committenti?
Ed ecco il punto. Che cos’è un Rèprobo, un Traditore, un Condannato? Se ci si potesse accontentare di definirli “Prigioni”, sarebbe fatta. Nudi: e non è la perfetta nudità del David, la ferma volontà che si legge nel suo sguardo, la libertà che sta tutta nella pietra che serra nel pugno e che sa benissimo quando sarà scagliata e dove andrà a colpire. La nudità dei Prigioni è la loro vergogna, la loro miseria, la loro abiezione; la loro assenza di volto è perdita d’identità dunque d’ingenuità, riduzione all’informe.
Il punto sta tutto nell’eredità classica che si legge in quelle nudità. Tra i greci, che scolpivano nudi mirabili, l’assenza di veli era bellezza e orgoglio. Anche Michelangelo scolpirà il Risorto come un giovane muscoloso Eroe serenamente appoggiato alla Sua croce. Qui però, erigendo a Giulio II un mausoleo che peraltro non compirà mai, egli ritrae i suoi nemici costretti all’umiliazione e al servaggio. I telamoni e le cariatidi dell’Antichità sopportano il peso degli edifici, ma non lo danno a vedere: rimangono immoti e sereni. Michelangelo, però, ritrae Atlante: lo ritrae nello sforzo di sostenere la volta stellata: questa è la sua punizione. Atlante è figlio del Titano Giapeto e dell’Oceanide Climene: è fratello di Prometeo, il Titano amico dell’uomo e ladro del fuoco divino per consentirne il progresso. Prometeo è il Titano d’Oriente, incatenato al Caucaso; Atlante quello d’Occidente, seduto sulla catena montuosa africana che da lui prende nome. Questi ribelli a Zeus, per quell’analogia che degli antichi dèi faceva prefigure dell’Onnipotente, sono prefigure di Satana e come tali condannate a sostenere la volta stellata o a subire incatenati tra le rocce del Caucaso – che Michelangelo non aveva e non avrebbe mai visto, ma che poteva ben immaginarsi, e non senza ragione, simili alle “sue” Apuane… – in quanto ribelli a quel Dio di Mosè che Dante aveva chiamato una volta “Sommo Giove”. Ma il tormentato cristiano Buonarroti amico di Vittoria Colonna e fedele alla memoria del Savonarola forse dubita che il papa, e specialmente quel papa guerriero e violento – per non parlar del suo predecessore, superbo e lussurioso – sia davvero l’immagine in terra del dolce Signore Gesù. Ed ecco che la realtà si rovescia, e il peso del cielo da sorreggere diventa dura ingiusta condanna sopportata tuttavia con dignità pari alla fatica: e il Titano diventa un Atlas patiens, anch’egli come il Christus patiens costretto a subire una pena indicibile per sostenere un universo che, a differenza di quello eterno dei pagani, è stato creato ed è quindi espressione di un’inviolabile santa volontà divina, non del capriccio di uno qualunque di quegli dèi che ora la teologia cristiana avvicinava a Dio fino a farne Sue prefigure, ora condannava come “dèi falsi e bugiardi”, servitori dei demoni quando non demoni essi stessi. I due Titani sono due eroi dell’umanità ribelle alla tirannica volontà degli dèi pagani demonici; due eroi associati alla Passione del Cristo, come lui martiri per amore dell’uomo, affinché egli – pur a sua volta disobbediente, quindi caduto ed espulso dall’Eden – possa godere del calore del fuoco recatogli da Prometeo e della luce delle stelle sostenute da Atlante. In questa visione cristiana nutrita da uno spirito prossimo alla Riforma, la Modernità è già qui: amare i Titani prefigura già l’intuizione di Milton, la visione faustiana del mondo, e Hölderlin, e Nietzsche.
Nella villa viennese del Belvedere, sontuosa dimora barocca del principe Eugenio di Savoia a Vienna, opulenti telamoni marmorei perfettamente scolpiti sostengono con visibile fatica le volte. Sono immagini servili che severamente e serenamente sopportano la pena del vivere, che per loro s’identifica con lo stare al servizio del gran signore vincitore del Turco e feldmaresciallo dell’impero. Sono lì per servire. “Oh, bravo, per servirmi!…”, avrebbe commentato il Don Giovanni del capolavoro di Mozart. Il talamone del Prinz Eugen è coerente con lo spirito gerarchico dell’ancien Régime. Atlante no. Atlante sopporta, ma non cede. È vinto, ma non è domato. Serve, ma conserva la nobiltà del ribelle vinto che non cede sotto il peso della sconfitta nemmeno se essa è gravosa come un cielo stellato. Per restar nell’àmbito delle parafrasi mozartiane, in lui c’è già un annunzio di qualcosa à la Beaumarchais. Atlante non è Leporello, non sta al gioco del suo signor padrone (“Madamina, il catalogo è questo…”). In Atlante c’è già qualcosa di Figaro (“Se vuol ballare, signor contino…”).
Guardatelo quindi, il Gigante Prigione dell’Accademia, sconfitto a differenza del suo colossale fratello ebreo perché Zeus non è Golia. Il suo volto resta chiuso nell’ombra solida del masso sbozzato, la sua impressione resta impenetrabile agli occhi di padroni, di committenti, di osservatori, di turisti, di critici, di studiosi, di scolari distratti, di voyeurs. Nel suo componimento poetico forse più celebre Michelangelo, che nel ’27 aveva fornito il suo contributo alla difesa della libertà fiorentina contro il ritorno dei Medici sostenuti dall’imperatore e che aveva quindi lavorato per la famiglia alla quale apparteneva anche il cardinale Giovanni, fidatissimo di Giulio II e poi suo successore al soglio, così fa parlare la Notte effigiata ai piedi del monumento funebre a Giuliano dei Medici duca di Nemours: “Caro m’è il sonno, e più l’esser di sasso – mentre che il danno e la vergogna dura: – non veder, non sentir, m’è gran ventura; – però non mi destar, deh!, parla basso…”. Il Titano Atlante, se avesse potuto prender sonno, avrebbe fatte sue quelle parole.

Su questa linea si snoda la conversazione immaginaria con Atlante di Laura De Luca che invano lo invita a… nascere. Alla fine egli implora di essere lasciato nella pietra, preferendo alla seduzione della forma, il permanere nell’informe. Per questa ragione ben gli si adatta l’intramontabile formula dell’intervista impossibile, alla cui serie, per la cronaca, ha collaborato anche chi scrive, immaginando di incontrare altri tre giganti della storia: Costantino, Federico Barbarossa, Jozip Stalin…

Franco Cardini

Anno Edizione

Autore

Collana

Recensioni

Non ci sono ancora recensioni.

Scrivi per primo la recensione per “Il prigione Atlante”

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati