PREFAZIONE

C’è una luce in fondo al cuore di Mazzella: l’uomo. Ed è talmente luminosa da sublimare in fede, l’unica possibile: credere che l’uomo sia il solo diletto del mondo. Viene a mente un aforisma quasi blasfemo di Oscar Wilde: mi entusiasma a tal punto osservare l’uomo, che mi manca lo spirito di cercare Dio. Tutto nasce dalla concezione che si ha del diletto. Se si debba intendere il compiacimento di sé stessi e degli altri, allora ci viene in soccorso la Poetica di Aristotele, con i generi della tragedia, dedicati a celebrare gli uomini insigni ovvero migliori, e con la commedia, dedicata alla rappresentazione de­gli uomini comuni ovvero peggiori rispetto alla cre­ma della società. Ne vengono fuori i due stili letterari, quello alto o sublime e quello basso o comico. Si è soliti pensare che l’eccellenza della parola sia sempre scritta dall’alto dei coturni, come dire che bellezza e verità possono essere tragiche, ma mai comiche. Del resto, anche i libri sacri di tutte le religioni, lontane dal praticare i toni pomposi della magniloquenza tipica dei tiranni, assumono tuttavia le forme del massimalismo popolare, e si esprimono con affermazioni apodittiche e con accenti perentori, che escludono a ogni passo il comico. Tuttavia, sappiamo che una delle opere più belle e intelligenti della civiltà europea è il piccolo libretto di Erasmo, Elogio della follia, scritto in eccellente chiave comica. Quanto alla saggezza dello stile comico basterebbe citare le Operette morali di Giacomo Leopardi, che si collocano all’apice della creatività letteraria e della sapienza filosofica, fra i più grandi capolavori dell’umanità, e che sono state concepite e scritte in stile comico. Fino dall’antichità greco-romana la satira e il comico hanno avuto grandi cultori, come Giovenale, Marziale, Orazio. E nell’ambito della letteratura italiana, oltre al citato Leopardi, non vanno dimenticati Di Giacomo, Porta, Trilussa. Ciò che possedeva la letteratura antica, in misura più splendente di quella moderna, era sicuramente la scrittura breve, come l’epigramma e l’epigrafe, cioè il pensiero saettante espresso in una sintesi lapidaria, capace di creare la visione istantanea dell’eternità. La modernità ha sostituito l’epigrafe con l’aforisma, genere ancora più gioioso e scanzonato, ma assai poco e male praticato, specie all’interno della letteratura italiana. Grande merito va riconosciuto a Luigi Mazzella per questo libretto I Pazzi e le Smorfie, che rinvigorisce la tradizione di intelligenza e di creatività letteraria riconducibile allo stile comico e che ha l’ulteriore merito di rilanciare il gusto per l’aforisma come possibilità da esplorare e da valorizzare a vantaggio della letteratura.
Quasi a sottolineare che la buona ironia infratta sempre fra le sue pieghe una sostanza di tragedia e di disperazione, Luigi Mazzella apre il suo bel libro, I Pazzi e le Smorfie – che reca nella scelta del titolo un affettuoso omaggio alla memoria del padre, come è spiegato dall’Autore nella premessa – con una com­posizione drammaticamente seria e non certo ironica, precisamente Pensiero laico su Fukushima, letta per la prima volta al Premio Capri del 2011, in una cornice commossa di spettatori convenuti per festeggiare la poetessa giapponese Banana Yoshimoto. L’espressione comica più accattivante per il lettore è sempre l’auto-ironia, cioè il sapersela prendere con sé stessi per i mali che affliggono il mondo e che, in realtà, hanno la loro origine in bene altre cause che non nel nostro operato. Bene lo sa Mazzella, che sceglie per introibo al discorso pronunciato in accenti satirici un testo dedicato al più autorevole collegio di giudici, quello dello Consulta, di cui egli fa parte, e lo definisce “non un posto per giovani”, da cui sortisce, sia pure dietro lo specchio onirico di un sogno scombiccherato, la formulazione “di un reato a me ignoto / a dir poco incivile […] un turpe sfruttamento / di lavoro senile”! Ma a fare le spese della satira, come Giovenale insegna, sono spesso e volentieri i poteri che risiedono sui più alti scranni, ed ecco allora che un Cardinale, “di volitivo aspetto” – di cui si sottace il nome, non per segreto di Stato ma per noblesse oblige – interferisce a gran voce nella battaglia di modernità incentrata sul “conflitto di interessi”, ma contemporaneamente invoca con altrettanto piglio la restaurazione settecentesca del privilegio di esenzione dalle tasse per il Clero. Ma ce ne è anche per gli ecologisti, come è di quel tale diabolico individuo che si professa ecologista solo dopo avere saputo che l’inquinamento allunga le probabilità di vita del genere umano, come capita a topi scarafaggi gabbiani che nell’inquinamento si moltiplicano beati. E se è vero che l’odio e l’amore sono le due facce di una stessa medaglia, allora il merito di non essere razzisti e la virtù di sapere riservare a tutti l’identico trattamento compete anche a chi, al sommo del sussiego – o dell’ironia? – riserva a tutto il genere umano, senza distinzione di razza o religione, un’identica carica di sdegno e di universale condanna, come del resto è bene spiegato in Non faceva distinzioni di razza. Ma l’ironia consiste anche nel sapere magistralmente connettere fra loro il sacro con il profano, come è dimostrato nel Naufragio ove l’altissimo naufragio leopardiano nell’immenso mare dell’esistenza senza possibilità di salvazione offerta dagli orientamenti metafisici viene messo sullo stesso piano con il naufragio della “Patria delle Caste” e con l’affarismo politicante di portaborse e di caporali della politica, suscitando un effetto di irresistibile comicità. Del resto la “monstruosità” – l’essere monster, ci spiegano i latini, cioè capaci di suscitare meraviglia – compete al sommo dei gradi al ciuco beato, a colui che sia a tal punto presuntuoso da convincersi di guadagnare la gloria grazie al “suo robusto raglio”. Ma una forma bene nota di ironia consiste nella capacità di stravolgere in canzonatura la decadenza dei valori e dei costumi civili e allora ecco che in Graduati e Generali si assiste alla successione decadentista e progressiva dei valori civili, per cui nella prima repubblica si è verificato l’omaggio di eccellenti statisti e uomini politici di valore reso con pompa magna a delle piccole tacche di militari, impettiti come tacchini ma anche vilmente dediti ad organizzare dei golpe da operetta o da avanspettacolo. Nelle seconda repubblica, invece, le parti si sono invertite, per cui vediamo degli uomini politici di bassa o di infima statura civile prendersi pubblicamente dileggio di alti generali delle Forze Armate o forze dell’ordine civile, il cui comportamento dignitoso e riguardoso delle istituzioni an­drebbe onorato in ben altro modo.
L’ironia più sottile è quella che mette a nudo le paure contraddittorie che nascono dai fantasmi costruiti dalla nostra stessa cultura come accade al novello Damocle, che secondo la leggenda narrata da Cicerone cenò alla corte di Dionigi tiranno di Siracusa, rivestendone per gioco i panni, ma dovendo soggiacere alla spada appesa sul suo capo ad un crine di cavallo, per sperimentare il rischio connesso alle posizioni di assoluto potere: l’ironia sta nel fatto che il novello Damocle, più che il taglio ferale della spada, teme di potere morire di tetano, qualora quella ne fosse infetta! Ma il ricorso alla mitologia è frequente in Mazzella, che ogni volta introduce un’ironica distorsione grazie a cui proietta una nuova luce rivelatrice su un episodio universalmente noto, come nel caso del brigante Procuste che depredava le sue vittime e infine le trucidava facendole giacere in un letto appositamente inadatto, in modo da amputare loro gli arti che fossero troppo lunghi o allungare con le corde quelli che risultassero troppo corti. Per punizione Procuste venne ucciso da Teseo che lo costrinse all’uguale supplizio, ma – aggiunge Mazzella – Teseo si limitò a fargli un buco nel lenzuolo del letto, e il brigante – “preciso e pignolo” – non seppe so­pravvivere a tanto fastidio. Simile sorte tocca anche al fiero Achille, che Omero volle fare cadere vittima della freccia di Paride indirizzata al tallone sensibile, ma che Mazzella ci svela essere banalmente caduto da cavallo, quando ecco che il medico di corte, nella sua improvvida piaggeria, si prodiga ad operarlo al tallone, causandone l’inclita morte di cui tuttora si favoleggia. E ce ne è anche per Ercole che, da quando si iscrisse al sindacato, smise di faticare ed iniziò a scioperare. E che dire del miserevolissimo Prometeo, condannato dalla leggenda a portare la fiaccola del progresso al genere umano che viveva nelle tenebre, quando lui, in verità, avrebbe voluto fare il vigile del fuoco! Anche l’alta tragedia di Pandora viene ridimensionata al gesto sconsiderato di una moglie sbadata che rimosse maldestramente dal canterano il vaso colmo d’urina del marito, e da lì si originò quel tal diluvio universale di liquida nefandezza che ancora sommerge la bellezza del mondo.
Tuttavia, va detto che la vittima preferita di Mazzella è senz’altro la politica, più ancora dei “politici”, i quali ne sono i degni guitti e la mettono quotidianamente in scena. La politica è la decima musa e sarebbe l’arte più sopraffina dell’uomo, e proprio per questo motivo di concentrazione di “umana inventività” la politica paga il maggior scotto di bastonate e di punzecchiature inflitte dalla penna di Mazzella, come tocca al povero Pulcinella nel teatro napoletano. Così il colore vermiglio del manto di una madre che allatta il pupo, metafora della Corte Costituzionale che allatta il popolo italiano con la sapienza giuridica, raffigurata in una tela esposta al Palazzo della Consulta, nella visione recriminatoria dei politici diviene l’allusione al rosso comunista che sventolerebbe come effige di orientamento sul maggiore organo della magistratura italiana. Ma più che i singoli casi – di uomini “clementi” di nome e di fatto e di altri che non “ci azzeccano” tra il dire e il fare o di tante altre sottane di prelati votati alla politica – ciò che rende luminosa e ridente l’ironia di Mazzella è la sua arte di sapere gridare al re nudo, cioè di sapere smascherare l’impostura delle forme e di fare emergere la realtà dei fatti. L’arte della parola in Mazzella sta nel dire con molta grazia e con un sorriso le verità scomode che i potenti tentano di nascondere o di edulcorare. In questi tempi di imperante relativismo, in cui si tende a credere che nessuna verità sia tanto affidabile quanto possa esserlo una bugia universalmente condivisa, Mazzella sa andare olimpicamente contro corrente, senza mai assumere l’apostrofo tragico del profeta, ma sempre offrendo il sorriso dell’osservatore arguto e tollerante, che rimane fedele al criterio di affidabilità riposto nel vero dei fatti accertati e che a quello si ferma. Forse, il merito di maggiore novità letteraria di questo bellissimo libretto sta nel distillato contenuto nei raffinati aforismi con cui si conclude. Si tratta della cosiddetta “scrittura in breve”, un condensato di sapienza espressiva e di riferimenti culturali. Andrebbero tutti riccamente citati e commentati, ma ci limitiamo a richiamarne uno solo, intitolato Il conferenziere, ove si fa allusione alla funzione fondamentale della cultura, che è quella di scuotere le false certezze, già bene nota e celebrata da Socrate, il quale sosteneva che l’uomo di autentica cultura è colui che “sa di non sapere”, ed ecco che Mazzella mirabilmente fa riflettere il suo lettore sulla vertigine di intelligenza cui sa pervenire il suo conferenziere, declinazione pedante e claunesca del sapiente socratico: “riusciva a confondere le idee agli altri, senza essere per niente convinto delle proprie”.

Sandro Gros-Pietro

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