Marilla Battilana milanese di famiglia veneta, docente di anglistica all’Università di Venezia e poi titolare della cattedra di letteratura angloamericana della Facoltà di Lettere di Padova, ha insegnato lingua e letteratura italiane alla Southern Illinois University e alla Queen’s University di Belfast. Visiting Professor a fini di ricerca nel 1983 a Princeton e nel maggio 1992 a San Diego. È autrice di poesia, narrativa, saggistica.
La prima raccolta di versi è del 1960, edita da Rebellato: L’erba rompe le pietre, quindi Valore zero valore, nel 1968, seguita da telefonare al boss, nel 1979 e, continuando a scadenza più o meno decennale, Occhiodiamante, 1989, entrambi pubblicati da Campanotto. Del 2002 La corona d’oro e altre pagine, Antonio Facchin Editore; Sequenza friulana, Panda, 2004. Ultimo è Dalla terra di confine, Ibiskos Editrice Risolo, Empoli, 2010.
A intervallare questi lavori, una serie di opere saggistiche: ricordiamo qui Venezia sfondo e simbolo nella narrativa di Henry James, Laboratorio delle Arti, Milano, 1971, 1987; l’antologia bilingue English Writers and Venice 1350‑1950, Stamperia di Venezia, 1981, 1989; Il tranello diabolico: arti visive nella letteratura americana, Neri Pozza Editore, 1979; The Colonial Roots of American Fiction, Olschki, Firenze 1988.
Fra le opere da lei curate e tradotte: Tre donne del New England, Quattroventi, Urbino 1986 e Ombre bianche, ombre rosse (racconti di prigionia fra gli indiani d’America), Passigli, Firenze 1997.
Per la narrativa, da citare i Racconti d’America e d’Italia, 1991, il romanzo breve Viaggio a St. Louis, 1994, il diario-saggio poundiano La muraglia di Gmünd, 2000, il romanzo Danny Boy, Ibiskos Editrice Risolo, Empoli (FI), 2012 e Necessaria è l’ironia, Hammerle editore, Trieste, 2014.
Nel 2018 pubblica la seconda edizione di Danny Boy, Genesi Editrice.
Ha ottenuto premi e riconoscimenti nei vari campi della sua attività: fra l’altro ha rappresentato l’Italia per poesia e critica al XX Convegno degli Scrittori del 1983 a Belgrado e alle Serate di Struga (Macedonia) del 1984. Inclusa nel Who’s Who of International Poetry, Europa Publications, London.
Socia del PEN Club Trieste. Ha vissuto a Coseano fino alla morte, avvenuta a luglio 2021 dopo un incidente stradale.
da Danny Boy (Ibiskos Editrice Risolo, 2012)
[…] Aveva la soddisfazione, a volte, di sentirsi chiedere. ‹where are you from›, lusinga quanto mai gradita per ciò che dimostrava: la quasi totale assenza di un accento straniero individuabile.
“Where are you from?” gli chiese la biondina del tavolo per due persone dove il ragazzo si accomodò con il piatto di ravioli fumante preso direttamente al banco di un locale nei pressi della University Library. Era un giovedì, giorno di semilibertà per la St. Lawrence, e lui vi si era diretto prima di dare inizio alla possibile mezza giornata di letture.
Nel migliore inglese che poté, studiandosi di arrotolare i suoni fra i denti prima di emetterli a labbra semichiuse, disse: “Italiano” e poi subito aggiunse “veneto”. La prima risposta gli sembrava generica, e in quanto a Montepieve sarebbe stato nome privo di significato: l’aggettivo Venetian che indicava sia il veneto che il veneziano, localizzava e distingueva immediatamente. Ne aveva già sperimentato l’effetto in più occasioni: era come se la Basilica assolata, con i suoi archi frontali dorati e il poderoso tiro a quattro dei destrieri di bronzo e poi l’intera laguna, gli si delineassero alle spalle conferendo alla sua persona un’aureola di preziosità, intrigo, colore, avventura. Infatti anche lo sguardo della bionda si fece lievemente più interessato.
“Vivi a Venezia?”
“Ho un pied-à-terre, là”. Era vero, pensò rapidamente, dato che poteva sempre disporre della stanza per gli ospiti in casa di Liliana, ormai sposata da oltre un anno. Poi specificò a scanso di equivoci futuri, tipo richiesta di scambio alloggi o magari di un’impossibile ospitalità:
“Di solito vivo nell’entroterra. Una cittadina sui colli. E tutto più semplice”.
“Magnifico. – disse la ragazza – E sei qui per vacanza, lavoro, studio?”
Decisamente la sua aureolata persona le interessava, meditò soddisfatto. Non l’avrebbe delusa presentandosi come studente liceale. Dopo tutto non lo era veramente. Il suo soggiorno londinese, soltanto un temporeggiamento, un interludio, una soluzione dilatoria, utile per la lingua da perfezionare, per l’esperienza diversa, per le distanze da prendere da un mondo, da una situazione che gli erano ricaduti addosso in forma di nevrosi: pericolo scongiurato ma latente.
‹Per un superato preconcetto te ne vai›, era stata una delle frasi che la madre gli aveva rivolte prima della partenza. Che pure aveva incoraggiata. Proprio in quell’ambiente musicale e genericamente artistico, che entrambi prediligevano, lei aveva preso a frequentare gente strana, ‹stramba› era il termine veneziano; gente per cui in sostanza nulla era sacro, niente proibito, niente impensabile. Ascoltavano echi di miti sessantotteschi rafforzati dalla ventata degli ultimi anni Settanta, ‹uccidi il padre, va’ con la madre, vendi la sorella› incitavano allora perentori graffiti fin nell›interno delle aule scolastiche e universitarie.
‹Basta con la politica come spazio separato – ovvero come mediazione – ovvero come ideologia – Violenza proletaria è felicità del mondo – e da queste pareti si proclama per la prima volta nella storia e nel mondo godere operaio! […]
da Dalla terra di confine (Ibiskos Editrice Risolo, 2010)
Piccolo inno
La poesia è vanga e piccone
per scavare sottoterra
fino al regno dei morit.
La poesia è aquilone per volare
in alto fino al cielo delle anime.
La poesia à spada fioretto pugnale
per difendere la verità,
la poesia è bisturi per sezionarle.
La poesia è l’ago che ricuce
le ferite di tutta l’umanità
che l’ascolta. La poesia è un gioco
che fa diventare grandi
chi la scrive e chi l’accoglie.
La poesia è preghiera all’essere che ami.
La poesia è preghiere all’Essere.
La poesia è.
Poesia è…
Incontro di cerebro e precordi
quando per entrambi l’attimo scocca;
allora l’espressione sarà colma
di verità che prosa non espone: il
paradosso, l’aperta confessione,
la metafora ardita che si impone
nel giusto ritmo
con esatta misura.
Mistura di lamento e di invettiva,
di feroce sarcasmo e di creativa
gioia per il lampo improvviso che
rivela essere l’esistenza, sì,
dolore e noia
ma anche dono per ogni creatura
umana di indagare la ventura
propria ed altrui con l’arma più strana,
questa sempre morente, questa vana
poesia che non muore.
Ed è parente prossima di amore.
Entrambi esigono, per affascinare,
solo il giusto linguaggio:
delicato o scurrile non importa.
Il resto è selva di interrogativi
senza alcuna credibile risposta.
‘Largo’ di Handel
Entra la sposa
preceduta da chicchi di riso
anzitempo. Un bimbo si protende
e quasi strappa le dande
perché la sposa è un’alta torre
con vessilli e insegne, la sposa
è come la gattedrale gotica di
lastre bianche coronata di trine
Je suis belle, o mortels, comme un rêve de pierre
che tutti vogliono vedere
arrivando da vicino e da lontano.
La sposa è orfana ma un fratello
l’accompagna, pensando che nessuno
sposo è abbastanza bello per lei.
Si libera dal male chi guarda
il sorriso in vetta al suo incedere, è
giorno di rivincita sulla bufera
mortale il suo entrare. Su entrambe
le guance il sacerdote amico bacia
gli sposi. Ma lei promette concelebra
oggi la vita, è pari al sacerdote.
La Harley-Davidson sarà messa
da parte, non correrà per discoteche
in notti azzardose, albe assonnate.
La sposa è un caldo focolare.
La sposa è un animale fedele
un’amica introspettiva, è una
ballerina che non scioglie in pista
la figura di danza, la sposa è
la casa, la mamma, la stanza dove
entra il cielo come nelle canzoni.
La sposa è un’alta torre
con insegne e vessilli, la sposa
è come una cattedrale gotica di
lastre bianche coronata di trine
Je suis belle, o mortels, comme un rêve de chair.
Abitare in Friuli
… E adesso vivo qui
circondata da case
nitide di grezze pietre
ciascuna con tegole indenni
o diligentemente rattoppate
riquadri di arancione nuovo
sul grigio. Case che
si lavano la faccia ogni mattina
si ravviano i fiori e i pergolati
si appuntano le imposte con forcine
che il vento non scomigli
e indossano con diritte spalle
quei centoottanta gradi di montagne.
In lode
Mi insegna
Come Dio disegna, l’inverno.
Rivela il substrato, la verità
del fascino estivo confuso all’occhio,
il maestro di grafica si scopre
rifiuta trucchi di bagliori e chiome,
traccia con penna sottile a fino unico
fasci dis terpi secchi e di ramaglie,
intrecci di complesse leggi sulla
scorza della terra rubicanata
come la cute di certi cavalli.
Non bada d’inverno alle cromìe.
Usa il nero dei rami ripuliti
dell’ultimissima foglia su giallo
di stoppia se compare un velo lieve
di sole, o se perfino lo splendore
per attimi esplode da chiuse nubi
il ricamo raddoppia. Ballano
incatenate orde di vitigni
la loro danza macabra e concorde,
vanno in torva bellezza sulla scia
in cui il vento autunnale trascina
il caduco, appare dai cupi scheletri
solo il ricordo di estuoso dipinto
di grappoli, di tralci. Assoluto
di perfezione ridotta a filamenti
a segni messamacchia tratti grovigli
scuri sul foglio della sfida bianca.
Carta implacabile all’artista.
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