PREFAZIONE

Questo secondo libro di poesia sta a dimostrare che il legame con la poesia di Davide Steffanone, iniziato quattro anni or sono con la pubblicazione dell’opera prima Uomo allo specchio, non è stato un evento di transizione occasionale nel viaggio di conoscenza che è la vita, ma si è trattato invece dell’inaugurazione di un autentico sistema di orientamento e di rivelazione dei contenuti profondi della sua personalità di uomo e, quindi, anche di scrittore. Rispetto alla citata opera, che letta a distanza di tempo presenta la caratteristica animosità cosmica che è consueta in tutte le opere di esordio, questo secondo libro si focalizza in un più chiaro, convincente e personalizzato rapporto binario con il mondo. Steffanone individua con sicurezza un dentro e fuori da sé stesso e, quindi, anche dal mondo; un essere in ovvero essere out, che viene coniugato e declinato in funzione operativa ed esornativa della vita, che tutto comprende e tutto ricapitola all’interno della concezione di abitare poeticamente la terra. Quattro anni or sono, nel commentare il suo libro di poesia, si è usato tra imbarazzo e pudore la formula del “farmacista poeta”, come ad agitare nella memoria la deriva citazionale di quel tale “apprendista stregone” tratto dalla celeberrima ballata di Wolfgang Goethe, il cui tema ispirò una quantità di altri artisti, musicisti, cineasti, scrittori e cantanti, fra i quali trionfarono per fama universale il musicista Paul Dukas e il genio dell’animazione Walt Disney. Il tema è semplice: l’apprendista pensa di imitare il demiurgo nello scatenare incantesimi, che poi non sa né controllare né dirigere a fin di bene. Il monito di Goethe è altrettanto semplice: non imitate l’artista, se non c’è un autentico stregone in voi, in altre parole, se non siete un consapevole demiurgo, che non compie incantamenti per estasi creativa, ma invece per meditata professione. Può succedere che se la professione reale consiste nell’essere provetti farmacisti, allora come poeta c’è il rischio d’essere “apprendisti stregoni”, come diceva Goethe, e cadere vittime dei nostri stessi incantamenti. E ciò è stato e resterebbe valido se la poesia rappresentasse come per Goethe una weltanschauung riservata agli elettissimi attraverso cui elaborare la “concezione del mondo” e la “visione di tutto il creato, passato presente e futuro”, insomma la quintessenza di filosofia, scienza e religione, fuse insieme e rielaborate nella mente universale del poeta, il quale – in quanto nipote a Dio, come sostiene Dante – può rappresentare in versi la divina commedia della creazione eterna. Però, in tempi moderni, la si prende un po’ meno alta, perché nessuno oggi, neppure tra i più talentuosi poeti onorati dal Nobel, crede ancora che il canto del poeta sia in tutto simile al canto del silenzio degli angeli e sia intonato direttamente alla voce di Dio, che squaderna la creazione nell’universo. Più verosimilmente, la poesia moderna ritiene che il canto del poeta sia l’illustrazione dei valori profondi della vita, presenti, riverberati, radicati sia nel quotidiano sia nei precordi più intimi del nostro animo. Ecco, allora, che ogni essere umano, se ha a cuore l’autenticità della sua vita, deve aprirsi alla poesia come la corolla di un fiore si apre alla luce del giorno, per esserne inondato nel profondo e per sviluppare quel rapporto del “dentro” e del “fuori” con il mondo da cui nasce la dialettica dei rapporti dell’uomo con l’ambiente. Davide Steffanone è diventato un autore affidabile in questa pratica e in questo esercizio di relazione ricapitolativa del proprio io con l’ambiente in cui egli si trova incastonato, come la gemma nel gioiello.
Nella splendida prefazione che aveva accompagnato il primo libro, Giorgio Straniero aveva giustamente individuato quattro parole chiave della poetica di Steffanone: cavaliere, lupo, montagna e mitologia. Intorno a quel quadrilatero di forza e di magia poetica, l’autore aveva costruito il fascino e la sostanza della sua poesia e Giorgio Straniero aveva subito individuato tali linee di forza e le aveva efficacemente commentate e illustrate. Questa vocazione di costruire un sistema di valori morali e spirituali rappresentabile per aree di forza poetica è rimasto attivo in Steffanone, ma si è anche evoluto in una visione da nomade, da pastore errante leopardiano, da osservatore e visitatore del mondo e della vita, stimolato da curiosità e da nomadismo culturale, che conduce ulissicamente a sviluppare l’indagine in un continuo ansioso movimento di esplorazione del mondo, dentro e fuori di sé. Ci illumina al riguardo il titolo del libro, L’equilibrio del lupo, che sottolinea nella locuzione sia l’aspetto della stabilità sia la vocazione all’erranza, se non addirittura al randagismo, come atteggiamento della mente: cioè cercare, cercare e cercare sempre. Dice il poeta: “Bandiera al vento / stendardo danzante / sull’ascetico respiro / della sottile aria di quota, / come carezza di madre, / presenza di padre / mano di donna, / amore incostante / di figlio. […]”. In pochi versi viene definito l’equilibrio del lupo: infatti, quella tale bandiera al vento agita il richiamo della foresta di stampo alla Jack London in Zanna bianca, mentre lo stendardo danzante fa venire in mente le avventure di intricata ricerca condotte ai limiti del mondo civile descritte da Joseph Conrad in Cuore di tenebra e del misterioso esploratore Kurtz, a cui Francis Ford Coppola si è ispirato per il suo Apocalypse now. Ma poi ecco che c’è una serie di metafore confortanti, che riguardano la saldezza dei rapporti affettivi e l’equilibrio fornito dalla certezza dei valori educazionali: carezza di madre, presenza di padre, mano di donna, amore incostante di figlio. Quell’incostante qualifica la maggiore fatica a cui è sottoposto un rapporto d’amore con il figlio, quando possa intervenire e fare gioco un’eventuale separazione dei due genitori naturali. Tra queste due forze che dialogano fra di loro – il richiamo della foresta e la dolcezza della dimora casalinga – si erge in mezzo il fascino alto, algido, silenzioso e solenne della montagna, che non solo rappresenta lo splendido richiamo della natura, ma anche la vocazione all’impegno, alla prova, al raggiungimento di difficili obiettivi. Steffanone si conferma per essere un grande cantore della bellezza solitaria e rivelatrice delle “serene montagne”, come le definisce Leopardi in La sera del dì di festa. La montagna istilla l’ascetico respiro nell’aria sottile di quota. Ed è facile intuire il valore di metafora dell’espressione, che sta ad indicare non solo un’altezza in termini di altitudine sul livello del mare, ma anche nella misura dell’impegno morale e spirituale. Lo spirito trino a cui conduce la montagna è detto altrove: “Abbeverati al fiume / della tua visione / e lo spirito sarà trino / nella velocità del lupo, / nella possanza dell’orso, / nel volo dell’aquila del cielo”. L’amore della montagna è celebrato e pienamente sviluppato nella sezione denominata Montagne, dove, oltre ai versi già citati, si trovano le liriche dedicate ad alcune incantevoli e storiche montagne del Piemonte occidentale, come lo Chaberton – “Torri, cannoni / caduti in memoria, / fortezza austera / che nel cielo plumbeo / ti stagli. […]” – e la Rocca Sbarua (o roccia bianca), punta appartenente al Monte Freidur – “Lo spasimo del cuore / e lo spasimo del corpo / mi vuole / foglia caduca, / tremula al vento ma / lo spirito di mio figlio, / che poco vivo, è presente / come le mie mani / che dalla roccia / sentono il graffio felino” – e il Monte Villano nel Parco dell’Orsiera – “[…] Sono parte di te, / Monte Villano, la cui croce / in vetta tocco, lontano / ancora una volta / donde proviene / il non appagante / stridore mondano”. Sulle vette che sovrastano lo stridore mondano il poeta ritrova l’orientamento verso i valori profondi della vita e rinnova la fortificazione dei suoi sentimenti famigliari.
Nella prima sezione del libro, che si chiama Philosophes, sono trattati dei temi più generali che riguardano il rapporto della scrittura con la realtà del mondo e con la personalità interiore dello scrittore. La scrittura diviene lo strumento alato e magico, come il tappeto volante di Aladino, che consente allo scrittore di spostarsi con libertà attraverso i luoghi e i tempi della storia degli uomini, senza mai allontanarsi dal suo scrittoio: “Scrittoio dal legno ciliegio, / simbiotico alla fragranza / dello speziato tabacco, / ancora ardente / nella pipa, / nel grigio / che diviene / carminio / per il respiro / divenuto fumo”.
Le tre sezioni contigue Proles, Cielo di sole e Famiglia sono dedicate corrispondentemente ai figli dello scrittore, alla sua attuale compagna con la quale Davide Steffanone ha ricostruito la pienezza e il calore di una vita appagata nei sentimenti e nella gioia della reciproca e serena collaborazione amorosa, e alla famiglia di origine, in specie alla figura amorosa e addolorata della madre dello scrittore, che sconta il peso sostenuto negli anni di tante ansie, preoccupazioni e impegni di famiglia.
Nell’ultima sezione, Imaginatio, nuovamente il poeta lascia correre l’immaginazione in un libero volo che travalica i limiti della realtà e del tempo e che lo porta a figurare che l’espressione attuale di Apollo, dio della bellezza e dell’amore inappagato e inappagabile, sia il moderno Peter Pan. “E così il Dio Apollo / è Peter Pan, il dispettoso / satiro Capitan Uncino / ed io sulla nave dell’irreale / e puerili sogni, viaggio.”
Tra fantasia e realtà, in un compendio ragionato di occasioni evasive e di riflessioni puntigliose, nel grande sfolgorio della bellezza silenziosa e incontaminabile delle Alpi Occidentali del Piemonte, tra panorami spaziosi e crepacci stretti fra gole e dirupi, si sviluppa tutta la bellezza e la gentile familiarità della poesia di Davide Steffanone, che risulta essere coniugata tra i due poli del canto e dell’incanto letterario voluto dalla tradizione italiana, cioè nella contrapposizione a specchio dei paesaggi interiori dell’anima con quelli esteriori del mondo, fintanto che il lettore avverta sempre vigile e in movimento, dietro il paesaggio, una più intensa e ansiosa azione ricerca della verità e della serenità.

Sandro Gros-Pietro

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