Edoardo Fabbri nasce a Torino nel 1952. Si diploma al Liceo scientifico Albert Einstein, con una relazione su Verismo e naturalismo, prosegue gli studi presso la Facoltà di Biologia. Rimarrà un’incompiuta, come d’altronde una fugace comparsa, con promettenti risultati, tra le mura della Società Scacchistica Torinese. Si impiega in un’azienda metalmeccanica torinese.
Giovane poeta in erba, come tanti, anche per via di una fastidiosa balbuzie che lolimita nella naturale espressione verbale, mantiene nel tempo la volontà e l’impegno verso una scrittura mai aliena dal vissuto intimistico e dal contesto sociale.
I suoi due libri, Dire, fare, baciare, lettera e testamento (prefazione di Silvio Bellezza) e Ho visto Singapore (prefazione di Marilla Battilana), entrambi pubblicati con Genesi nel 1995 e nel 2003, sono: il primo una raccolta di testi significativi degli anni giovanili, influenzati dall’attenzione per l’amato Pavese e dalla folgorante scoperta dell’Antologia di Spoon River (seguiranno Gli Indifferenti, La Storia, La buona terra della Buck); il secondo una più studiata architettura poetica dovuta alle molteplici letture a cavallo di quel periodo fecondo. Piace ricordare, tra gli altri: Narciso e Boccadoro,Cent’anni di solitudine, D’amore e d’ombra, Vedrò Singapore?, Martin Eden, Il grande Gasby, I quaderni di M.L. Brigge, La luna è tramontata, Una giornata di Ivan Denisovic, Il maestro e Margherita, Memorie di un clown, il saggio di Claudio Pavone Una guerra civile, e poi Montale, Whitman, Frost, Celan, il polacco Herbert, Alda Merini, Fenoglio.
Infine, gli incontri con Bárberi Squarotti, Ruffilli, Zavanone, Molinaro, Scarselli, Battilana.
Negli anni, viaggia, vede Israele e il Venezuela, un po’ d’Europa e Singapore. Poi sopraffatto da ansie e paure, intraprende un lavoro, determinante e determinato con Marina, psicoterapeuta.
Curioso e coinvolgente l’approccio con le discipline orientali, gli amici Anna e Nico.
Nel 2004 sposa Lucia, riscopre il piacere dei viaggi con una fantastica crociera che tocca, tra le altre, Istanbul, non casualmente al confine tra Occidente ed Oriente.
Collabora, nella sezione Poesia, al n. 36 della rivista Vernice (Genesi, 2007), con una sequenza di testi.
E-mail: edofabbri.lucia@alice.it
Il plesso narrativo di Edoardo Fabbri serve a organizzare la dispersione. Si tratta di un ossimoro o se si preferisce di un paradosso: l’armonioso disordine oppure il disordine organizzato con il più compunto puntiglio maniacale per la precisione. Una virgola ad inizio del capoverso: occorre porla proprio lì, con la stessa millimetrica precisione con cui si comporrà l’endecasillabo in rigoroso incipit giambico, con accentazione in 2ª, 4ª, 7ª e 10ª sillaba. Tuttavia, non è lì che si deve cercare Edoardo Fabbri. Intendiamoci: Edo è anche lì, nella forma e nel contenitore dei versi. Ma lui è principalmentealtrove. Lui sta nell’insostenibile necessità di raccontare. Lui sta nella vicenda che si consuma, si disperde, che fluisce come il fiume di Eraclito: lì c’è il poeta, che fa a tempo a commentare solo qualche spruzzo del suo tuffo dentro la realtà, riuscirà a denotare non più di qualche goccia, farà una piroetta, un parallelismo, echeggerà un omaggio evocativo a quell’altro tuffo avvenuto ben più avanti ma rimasto celeberrimo – quello, cioè, di un suo qualsiasi precursore – ed ecco che prima di riuscirci appieno il poeta è già scomparso sotto le acque dell’indistinto, assorbito dal liquido amniotico che tutto ricopre, da quella sorta di brodo primordiale, ma anche di brago. Egli scrive proprio così, brago, quello dantesco, tanto per capirci quello della palude dello Stige, che ricopre i violenti e gli accidiosi. Il poeta violenta la realtà, nel tentativo tantalesco di abbeverarsene? Può darsi di sì: il poeta si avvicina al reale, ma il reale si allontana da lui mentre egli lo nomina, un po’ come accade con l’acqua che si allontana dalle labbra di Tantalo quando questi si sporge per berla. Un tempo, neppure molto lontano, si sarebbe detto che si tratta di un’antipoesia, perché non si prefigge di eternare il mondo, non si preoccupa di trasmetterci l’immagine statica e indelebile del tempo, non possiede la visione classica, foscoliana e oraziana dell’aere perennius. Oggi, con più confidenza con il modernariato, si può dire che è una poesia interstiziale e pluriespressiva: riempie i vacuoli dell’assenza con una pluralità di orientamenti.
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