16,00 €
Autore: Renato Greco
Editore: Genesi Editrice
Formato: libro
Collana: Le Scommesse, 530
Pagine: 192
Pubblicazione: 2018
ISBN/EAN: 9788874146703
PREFAZIONE
I Quaderni palesini raccolgono le poesie di Renato Greco scritte nel corso di numerose estati, nella casa del quartiere a vocazione turistica di Bari-Palese, prospiciente il Mare Adriatico, come spiega lo stesso Poeta nella nota introduttiva. Il luogo di scrittura, dunque, non è l’abituale residenza a Modugno, quest’ultima collocata nell’entroterra di Bari, ma si trova a pochi chilometri di distanza, non molto discosta dall’aeroporto intestato a Karol Wojtyla, importante scalo nazionale e internazionale. In prima approssimazione viene spontaneo pensare che si tratti di poesie vacanziere, cioè scritte nel gioioso clima di distensione e di rasserenamento, propiziato dall’atmosfera spensierata dei turisti agostani. In verità il raggruppamento di questi testi nello specifico dei Quaderni palesini ha una motivazione unicamente di carattere logistico, ma non tematico o contenutistico: il Poeta li ha scritti lì, sul posto, e questa collocazione topografica è servita a battezzarli per tali.
Questo quinto volume è suddiviso nelle tre parti che si chiamano rispettivamente Simili sulla terra, dedicata a rappresentare situazioni e pensieri di contenuto generale e anche riflessioni sull’ambiente di vita, con ulteriori considerazioni di sociologia d’attualità; Assecondato cuore, rivolto a valorizzare il versante autobiografico dell’Autore; Nulla può la bellezza, in cui l’Autore sembra ritorcere in negativo l’affermazione dostoevskijana attribuita al principe Myškin, “la bellezza salverà il mondo”. Myškin è il tragico e luminoso protagonista del romanzo L’idiota, che rappresenta un’ideale reincarnazione di Gesù. Forse, proprio da questa sezione, Nulla può la bellezza, bisogna iniziare a sdipanare il filo di Arianna del libro. Renato Greco sembra dare ragione al nichilista Ippolìt, che pungola il principe Myškin e quasi lo dileggia in pubblico per la sua fede nella bellezza. Bisogna rifarsi etimologicamente al significato originario della parola bellezza, che in sanscrito suona Bet-El-za, e significa “il luogo ove Dio brilla”. La luce di Dio, cioè la bellezza, salva il mondo è, dunque, un pensiero di fede. Ma per il nichilista Ippolìt non vi è alcun luogo in cui brilla la luce di Dio, in quanto egli è malato di tisi ed è prossimo a morire. Questa citazione letteraria di Renato Greco, sapientemente nascosta tra i versi ordinari del quotidiano, sta a indicarci una garbata, ma meditata riflessione sul pessimismo, che aleggia un poco su tutte le poesie raccolte in questo quinto quaderno palesino. A onore del vero, va detto che la poesia conclusiva, Verso la vetta, mitiga l’atmosfera di pessimismo e la trasforma in una sorta di resurrezione, grazie al “falò delle vanità”, quello organizzato da Gerolamo Savonarola in Firenze nel 1497. Infatti, in Verso la vetta, sta scritto che lo scalatore, metafora del Poeta, “Combatte acerbamente per uscirne / – né s’abbandona al vuoto sottostante // Si sente – a un tratto – come senza peso / e supera la cengia e l’arboscello // Ed è al di là / Fradicio / Vittorioso”. Ecco, dunque, come questo segno di vittoria con cui si conclude il libro diviene un potente monito di fiducia nelle scelte alte dettate dall’impegno e dall’orientamento rivolto a raggiungere la Vetta, una sorta di atto di fede, in hoc signo vinces, l’epifania dell’imperatore Costantino, cioè una visione poetica che è capace di lenire l’affermazione che “nulla può la bellezza”. Eppure, su tutto il libro cova un tepore nostalgico, che è qualcosa di più di uno scontato rimpianto della gioventù, diviene quasi una ricapitolazione in termini negativi del mondo e delle sue effimere manifestazioni di vita. L’immagine stessa della morte è apertamente richiamata in A uno a uno, che nuovamente propone un approdo nichilista: “Vado pensando che sarà quel noi / – un giorno o l’altro – che scomparirà // E non sarà successo quasi niente”. Poco più avanti, il Poeta si chiede quale sia l’immagine della vita che sopravvive in noi: “L’immagine è di vita Ma quale? / Mano di ferro stringe la mia testa / – vedendo lei e gli altri – nella morte / che fanno – rumorosamente vivi // E mi dimentico di me all’istante / e provo a esser loro e non riesco”. Così pure in A colloquio con i morti viene rappresentata una tensione quasi di assedio o di agguato dei morti che spiano da sempre i “corpi viventi / […] nell’oggi calati e indolenti”. Nella poesia Uno sgabuzzino, che è chiaramente un enunciativo della condizione dello Scrittore, si insiste sul significato profondo di nominare la morte: “L’uomo – che sa parlare della morte / da una posizione privilegiata / Tutto quello che dice – è contenuto / e defunto – nei suoi tanti libri”.
In aperto contrasto con questo filo rosso di mestizia e di sfiducia, trionfa nel libro un canto libero alla gioia di vivere. L’amore è certamente il tema più rappresentativo della gioiosità e della sensualità che invade, anche nei ricordi del passato, la quotidianità del Poeta. La sezione deputata a rimarcare più delle altre l’eros e le sue declinazioni è ovviamente la seconda, già citata, Assecondato cuore. Si legga la Serata memorabile, che propone una rendicontazione in prosa poetica di un furtivo convegno d’amore celebrato nel retrobottega di una drogheria: “[…] La drogheria vuota e silenziosa / Il nostro fiato come se in affanno e il dolcissimo gioco che / c’è sotto Ma c’è come una forza che risalga in poco meno che / di dieci minuti – alla cima e sapida ne sprizzi”. Poco dopo, leggiamo in Al centro i fiumi d’Indocina come un’intera vasta regione della Terra, precisamente l’Indocina, divenga rappresentazione antropomorfica del corpo femminile: “Mischiate con i miei / furori torbidi e alla sua carne / lievitante – che mi rammentino / una donna che ha tra i fianchi un / continente di verde terra / tropicale e al centro – i fiumi d’Indocina”. Così dicasi di Se ti trovassi, Bocche, Amore, Il fiume e la pulzella, Ballerina, Alla lei perduta, Fatta per me, Non chiedere – mio amore – la ragione, Amore – tu e molte altre poesie ovvero versi sparsi nei testi che si riferiscono per lo più al passato del Poeta, alle gioie non disgiunte dalle malinconie e più in generale alla dolcezza del più nobile fra i sentimenti umani, sempre coniugato in una realistica fusione del corpo con lo spirito, per una rappresentazione gentile e ispirata della donna.
Siamo abituati ad attribuire al poeta di Modugno almeno due altri temi che sicuramente anche nei Quaderni palesini non mancano: l’amore per la natura e l’impegno per le questioni sociali, civili, politiche e storiche. È abbastanza ovvio dire che Renato Greco, in termini di amore per la natura, è favorito dal fatto che si trova a vivere in una delle regioni più belle e diversificate di quell’immenso giardino che è l’Italia intera e, quindi, il suo canto verso il fascino del mare, dei monti, dell’altopiano, dei torrenti, dei boschi e delle isole sorge spontaneo nei versi come documentazione dell’ordinarietà della vita di un abitante delle Puglie. Inoltre, questa individuazione toponomastica, nel caso del Poeta, va subito corretta con l’allargamento a una condizione di universalità, che è bene presente e sviluppata nella mentalità di Renato Greco, il quale si sente ed è a tutti gli effetti cittadino del mondo, e la sua poesia, del resto, offre sovente una rendicontazione dei viaggi compiuti in terre straniere, anche esotiche, come peregrinazioni reali e fisiche ovvero come voli pindarici, immaginari e libreschi, compiuti nello spazio e nel tempo con la ricostruzione mentale delle condizioni di vita e di sviluppo di civiltà mai visitate oppure già scomparse, ma di cui il poeta ha ricostruito sui libri la fisionomia e il vanto. Per quanto, attiene, invece, all’impegno politico e civile sviluppato nei versi, siamo tutti edotti del fatto che Renato Greco è stato, nel corso della sua lunghissima e meritoria attività di scrittore e, principalmente, di poeta un censore catoniano degli atteggiamenti di smodatezza o di lassismo, un predicatore alla Savonarola dell’onestà dell’animo, della semplicità dei costumi e un accusatore all’Émile Zola dei corrotti e dei truffatori, difensore degli umili e avversario dei prepotenti. Su questi temi si è già così tanto scritto e la critica letteraria ha già in tal modo riconosciuto i meriti e descritto i contenuti dell’opera di Renato Greco che sembrerebbe una manifestazione di balbettamento infantile ritornarci sopra, più ancora che una ripetizione retorica. Anche sugli aspetti formali, inerenti le tecniche di versificazione, il ricorso frequente all’endecasillabo, specie spezzato in due o più emistichi, le proposte esotiche di Tanka o di Haiku, è già stato detto ampiamente, ma vale la pena sottolineare la fluente versatilità dello scrittore, portato a esprimersi utilizzando con naturalezza e rigorosa sapienza più codici letterari. Forse, va aggiunta un’osservazione riguardante l’abolizione totale dei segni di punteggiatura: il dettato assume la forza lapidaria dell’epigrafe in pietra, niente punti, niente virgole, nessun punto e virgola, ma solo le lineette, come si costumava nell’antichità classica e come, in particolare modo, è in uso nell’iscrizione sulle lapidi, ove ancora oggi l’inserimento della punteggiatura è considerato un autentico sfregio grafico, essendo ammessa al massimo la lineetta di intervallo fra alcuni lemmi, scolpiti nella pietra. Sono scelte stilistiche che documentano non solo l’originalità delle soluzioni, ma anche la memoria del passato che Renato Greco coltiva nella sua arte scrittoria. C’è da notare, infine, un uso molto marcato, talvolta volutamente insistito, del verbo coniugato al modo congiuntivo, probabilmente per innescare una corretta polemica grammaticale contro l’abbandono del medesimo.
C’è tuttavia un aspetto che, a giudizio dello scrivente, deve essere meglio messo a fuoco. Sbagliano tono e giudizio quei critici letterari improvvisati che presentano Renato Greco in termini di “poeta eccezionalmente prolifico”, come volessero criticare una situazione di creatività che fa di uno scrittore un caso di “enormità” e, quindi, in un qualche modo di eccessiva verbosità poetica, non selezionata dall’auto riduzione dell’autore, che dovrebbe essere sempre il primo censore di sé stesso. Invece, si tratta di un merito indiscusso e indiscutibile. Renato Greco è uno straordinario lavoratore e un cesellatore implacabile della parola poetica, nulla sfugge al controllo severo della sua penna. Sull’argomento ha detto molto bene Donato Valli, che ha parlato, a proposito della ricchezza produttiva del Poeta, di un “diario della Poesia, cioè di risoluzione della quotidianità in termini di sublime significanza, di totalizzante appercezione del sentimento della ragione”. Meglio non si potrebbe dire. Renato Greco è il poeta italiano contemporaneo che meglio ha saputo fare della vita vissuta con la mente, il corpo e lo spirito un continuo e infinito dialogo poetico con sé stesso, con la realtà del mondo e con i fantasmi del sovrasensibile.
Sandro Gros-Pietro
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