Prefazione

Se le vaghe stelle dell’Orsa richiamano l’attenzione di Leopardi nei confronti del mistero della vita, gli stelloncini del tipografo – sinonimo di asterischi – catturano la fantasia di Giovanni Caso sullo stesso tema, che è pur sempre – per usare le parole impiegate dal poeta nei suoi versi – “ricordi, suoni, colori, viaggi, aneliti di assoluto, incontri di sogni e pensieri”. La poesia di Giovani Caso è una sottolineatura, con valore denotativo, memoriale e accrescitivo, dei casi della vita. L’orizzonte degli eventi: si usa anche questa pomposa espressione per indicare fino a dove si può osservare ciò che accade ossia ciò che c’è. È una formula poetica presa a prestito dall’astrofisica e rappresenta i fenomeni che sono ri­scontrabili all’interno di una determinata dimensione di spazio-tempo, cioè ciò che non collassa nei buchi neri e che non scompare nell’antimateria, la quale ultima rappresenta la stragrande maggioranza totalmente ignota e inspiegabile dell’universo, ossia costituisce la parte preponderante del cosmo, che noi definiamo con l’espressione ciò che non c’è, perché appartiene a una dimensione di spazio-tempo cui noi non possiamo comunque accedere e di cui non riusciamo a farci alcuna ragione circa la sua esistenza.
Caso rimane, invece, saggiamente ancorato ai suoi numerosi e incantevoli asterischi: ci parla di vita vissuta, di amori per la natura, di sentimenti per gli amici, di af­fetti familiari, di religione dei gesti e dei luoghi della vita quotidiana, di usi e abitudini antiche e consolidate nella serenità della ripetizione sicura del gesto. Il viaggio di Caso è un itinerario circolare, probabilmente con uno sviluppo in crescendo a spirale, interamente contenuto nella palmare chiarità del mondo esistente. Apud montem, cioè nei pressi del Castello dell’alto medievo fatto costruire dal principe longobardo Guaimario IV sulla cima del monte Solano per difendere i suoi sottoposti dalle incursioni predatorie e terroristiche che i Saraceni di inizio secondo millennio infliggevano all’inerme popolazione agricola del luogo. I secoli scivolano lungo l’arco della storia umana, ma le incursioni “predatorie e piratesche” provenienti dal Medio Oriente non paiono essersi del tutto spente neppure oggi. Tuttavia il Millennio non è passato invano e al posto delle sparute genti vestite di stracci alla Brancaleone che coltivavano i campi di Roccapiemonte ai tempi dell’insediamento longobardo, si è passati, nella temperie dei secoli e delle vicende umane, al dominio degli Angiò, degli Svevi, della Chiesa per giungere infine intorno al Settecento alla aristocratica signoria dei Ravaschieri, splendida famiglia principesca napoletana, di origini anticamente genovese, che ricostituì la sua ricca schiatta e fortuna nel Meridione d’Italia, nel cuore della Campania, tra Napoli e Salerno. Roccapiemonte con le sue tre circoscrizioni – Corpo, Monastero e Casali – si conta addosso più di mille anni di storia, minuziosamente documentata di generazione in generazione, oltre quaranta passaggi di padre in figli, come solo le città di più antica storia sanno documentare. Per il poeta Giovanni Caso, lì c’è l’ombelico del mondo: a Roccapiemonte! Là c’è la fonte originaria da cui sgorga la poesia antica e moderna. C’è l’identificazione del poeta con la sua terra, che è antica come lo sono i nobili esametri dattilici di Virgilio nell’Eneide ed è moderna come lo è il canto nostalgico e folcloristico di Woody Guthrie in This Land is your Land. Chi legge il libro Poesie tra asterischi risale, dunque, il corso di un fiume come capitò al mercante Kurtz in Cuore di tenebra di Joseph Conrad, da cui Francis Ford Coppola trasse il suo Apocalypse now. Ma non va alle origini del male assoluto, e cioè non giunge al termine del suo viaggio a conoscere il volto dell’orrore-orrore-orrore!, ripetuto per tre volte all’atto della tragica morte del protagonista. Al contrario, in Giovanni Caso, il viaggio di risalita alla fonte conduce al bene assoluto – sia pure inteso nella imperfetta e parziale realizzazione che si può umanamente realizzare in questo mondo del tutto relativo! Caso, infatti, conduce il lettore alla piena serenità, conciliazione, accettazione e piana attesa della vita umana e dei suoi misteriosi esiti. E tanta dolcezza e saviezza di modi e di pensieri è contenuta nei gesti e nel comportamento dei vecchi paesani, riuniti lungo i viali alberati della sua città, i giardini, le piazzette, davanti alla Chiesa di San Giovanni Battista, ma anche nei campi profumati di erbe, tra gli albicocchi in fiore o sulle sponde petrose del torrente Solofrana, nei cieli tersi e stellati del luogo natio: “Hanno sogni leggeri di colombi / i vecchi, giù al paese, si concedono / alla luce dorata del tramonto, / si narrano memorie di altri luoghi / e di altri tempi. Sono come piccole / faville che scintillano nell’aria / e, quando, una si spegne, resta un segno / che non si perde. E poi, come una stella, / s’aggiunge un’altra piccola favilla / e un’altra ancora.” È dunque a questa piccola resurrezione dell’anima che il poeta convoca il suo popolo di eletti, gli amanti della poesia: li convoca alla conciliazione e all’amore con il loro luogo natio, cioè all’amore verso la fonte da cui è partito il viaggio dentro la vita per ognuno di noi. Il ritorno al luogo delle origini si inizia computando l’appello dei presenti nella loro totale interezza, compresi coloro che già sono trapassati a migliore vita: “Ci siamo tutti, ci contiamo, ci ritroviamo / sulla soglia delle antiche memorie, / la fionda che sussurra ai lampioni // […] / A quest’età / Rocca è un bisbiglio candido nell’anima, / gli istanti e le stagioni hanno la stessa / eternità”. E il cuore si inonda di ricordi e di evocazioni che, pure nel loro carico di nostalgia e di dolcezza perduta, servono a ricostruire l’incanto della passata bellezza, la gioia di avere vissuto i momenti nobili e spensierati della gioia e della serenità, la devozione per il dono di vita di cui tutti noi abbiamo goduto: “Noi, fanciulli di Rocca, eravamo sazi / di poco, ci dissetava la luce, ci colmava / il canto degli uccelli dalle querce giganti / di Villa Ravaschieri. Al tramonto / battevamo le mani per zittire / quelle dolci armonie, per un attimo / prigioniere del vento”. Il libro Poesie tra asterischi è in verità costruito come se fosse un unico poema, anche se appare contrassegnato da salti e da congiunzioni tra le parti che sono solo alluse o lievemente accennate. Dobbiamo immaginare la rappresentazione a spirale di un ciclone che si muova lentamente in convergenza del suo occhio centrale, in cui si scatenerà alla fine la massima forza poetica. Ed abbiamo già detto che questo centro ideale della mente è Roccapiemonte, la città natale del poeta, un luogo bene delineato nella geografia della realtà, cioè un topos che ha una bene denominata consistenza storica, materiale, umana, sociale, politica. Ma le prime condensazioni di forza della poesia si manifestano in un territorio etereo che ha una cittadinanza ancora del tutto spirituale e fino anonima. È un semplice vento, è un’anima astratta delle cose comuni: “Sono appena venuto al tuo silenzio, / anima mia, ho attraversato il tempo / della mia vita, ho raccontato il vento / di questo errante andare. Come vedi, / ho ritrovato la tua casa d’ambra / che non esiste, ma che pure esiste / in me, come un respiro”. Ma poi ecco che la forza della poesia poco alla volta mette a nudo la consistenza profonda della realtà e ci fa vedere le cose nel loro volto segreto, nella loro appartenenza delle une alle altre con dei legami profondi che non ap­paiono in superficie e che, invece, il ragionamento poetico subito illumina in modo indelebile e veritiero, come accade nell’immediata identità che il poeta stabilisce fra di sé, uomo impegnato in attività di cultura e di istruzione superiore, e fra suo padre, old workman direbbe Woody Guthrie, cioè contadino dedito ai lavori dei cam­pi con sistemi e usanze vintage: “Mi rispecchio nel volto di mio padre, / la stessa luce, il gioco delle rughe / attorno agli occhi ed i capelli corti / nella stessa canizie”. Ci sono cinque diversi bracci della spirale che implodono verso il centro di Roccapiemonte, composti in cinque sezioni differenti di quello che abbiamo definito un uni­co poema organico. Le tematiche sostanzialmente si rinnovano in modo sempre più cogente nelle cinque sezioni. E ogni sezione, che ha un andamento tendenzialmente narrativo, è scandita dalla seguente da una sorta di in­termezzo contrassegnato in versi brevi e corsivi, con an­damento tendenzialmente lirico o anche un poco evocativo, quasi come avviene nei cori delle antiche tragedie greche. Alla fine si mette in movimento una “grande macchina della poesia” che ci avrà parlato della sacralità della natura, della potenza di illustrazione e di svelamento della scrittura, della dolcezza trasognata e pura dell’infanzia, dell’avventura ricca di fatiche e di soddisfazioni del viaggio condotto dentro il lavoro e all’insegna dell’affermazione di sé anche lontano dal luogo na­tio, della serenità degli affetti familiari, dell’imperturbabile ripetitività delle regole del mondo e delle stagioni che trapassano le cose e gli uomini. Nel complesso, l’abbraccio della poesia, nella visione che ci fornisce Giovanni Caso con i suoi stelloncini che punteggerebbero le pagine platinate dei poeti, contiene tutti i valori per i quali gli uomini combattono per vivere e infine muoiono, quando li perdono del tutto. C’è una pisside che raccoglie questa tempesta shakespeariana, di magie e di riscatti della realtà, e sarebbe, come si è detto fino dall’inizio, il luogo incantato, amato e documentato con tanta devozione di figlio, che è la città di Roccapiemonte.

Sandro Gros-Pietro

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