Prefazione

Dietro alla poesia di Lionella Favretto ci sta ancora e sempre la lezione fondamentale da cui nasce per intero la poesia contemporanea, l’impressionismo e le sue derivazioni. La sorgente si trova tra Baudelaire, Verlaine e Rimbaud, nella sinestesia delle illuminazioni che fondono fra loro colori, musica e parole, nel trionfo della rappresentazione artistica proposta come trasfigurazione della realtà fenomenica e come viaggio verso la dimensione ‘altra’, quella dell’estasi artificiale, dove l’artificio è fornito unicamente dall’invenzione creatrice e ammaliatrice dell’artista, e non necessariamente dall’uso di sostanze stupefacenti. La poesia in Favretto diviene strumento e canale per catalizzare sia le sensazioni emotive sia il pensiero conoscitivo (e descrittivo) con cui interpretare e rappresentare il mondo. Il procedimento si raggiunge attraverso l’amalgama che solo la poesia realizza fra immagini, musica e parole. Da tale fusione di emozioni, si ottiene il cosiddetto sesto senso, che altro non sarebbe che un’emozione più veloce e più profonda riguardante la nozione del mondo, della nostra vita e della storia infinita in cui ogni cosa è descritta. Se questa è la breve collocazione storica applicabile alla poetica di Lionella Favretto – scrittrice che è bene documentata in fatto di storia della letteratura contemporanea – va poi detto che le soluzioni cui l’autrice torinese perviene sono ben altra cosa dai modelli classici di fine ottocento riscontrabili sulle antologie poetiche diffuse per tutto il globo terracqueo. Innanzi tutto la Favretto rinnega totalmente le ottocentesche misurazioni metriche delle unità versali e le ridondanti ecolalìe delle rime che un tempo rivestivano i versi come statuette ballerine nei carillon d’antan, di frou frou, per fronzoli e frusci. Al contrario, qui siamo di fronte a un verso sempre imprevedibile nella sua asciutta ieraticità declamatoria, sovente tronco se non addirittura franto e spezzato, appena alluso nel significato anfibologico di una pluralità di sbocchi possibili, magari racchiuso nell’enigma interrogativo di un solo vocabolo, con un chiaro ascendente di marca ermetica. Inoltre, il tema e i contenuti trattati non riguardano affatto, come amavano invece vagheggiare i vati dell’ottocento, le questioni concernenti l’Assoluto, Dio e l’Anticristo, la Morale e il Progresso, le magnifiche sorti e progressive già sbeffeggiate da Leopardi, ma che comunque costituiscono il cavallo di battaglia tra impressionismo e positivismo e poi ancora più in là. Al contrario, qui è realizzato un intreccio a rete di temi spiccioli e ordinari che hanno la loro centralità nella dimensione autobiografica della scrittrice, e nel suo viaggio tra i valori e i disvalori della vita, sostanzialmente incline all’ottimismo ovvero a sviluppare una luminosa capacità di resistenza vocativa a rigenerarsi come attesa di luce ad oltranza da opporre all’usura della vita e allo scialo delle risorse. Infine, vi è la straordinaria novità dell’indagine psicologica, totalmente assente negli autori ancien régime: l’articolazione di un discorso di scavo e di racconto che prende coscienza degli attriti tra l’io, il super io e l’es, e che contribuisce a fornirci una rappresentazione più vicina ai nostri tempi e alle nostre problematiche.
Gli orizzonti del discorso poetico di Lionella Favretto riguardano un movimento di evasione/elusione che pare riproporsi sempre uguale a se stesso, lungo una direttrice ideale che perfora i muri delle stanze e travalica i confini della quotidianità per proiettarsi verso la dimensione del “canto libero”, già caro a Lucio Battisti, come si riscontra nei versi che seguono:

                          Lo sguardo si fa largo tra le tende
di questa stanza in penombra
attraversa in diagonale la strada,
sale su,
solca un’antenna di vecchia concezione
– ancora funzionante –
e si lancia nel grigio del cielo,
fuori dal tempo,
per dimenticare il presente…

La dimensione della fuga/viaggio è sempre presente nel dettato dei versi, e per lo più inizia dalla liberazione del corpo. Ha per fondale scenico le località di viaggio più amate, quasi sempre spagnole o francesi, con una devozione particolare per Parigi, sia i luoghi topici del turismo di massa sia il quartiere di Belleville, dove non a caso Daniel Pennac ambienta molte vicende dei suoi romanzi. Ecco nei po­chi versi seguenti come dalla liberazione del corpo si arrivi alla musica, alle parole, ai luoghi topici della fuga/viaggio in poesia:

                          La sommità del mio corpo
è satura
di note lanciate
nella brezza
di un bar spagnolo:
dodici idiomi
riempiono l’ambiente, corrono
si rincorrono
e si comprendono, anche solo
guardandosi!

Altrove leggiamo come la descrizione del mondo circostante sia una trasfigurazione della realtà e ne divenga cosa ‘altra’:

                          La casa che mi sta di fronte
entra
nella stanza,
è un angolo perdutamente
vicino,
vicino ai sogni
che fuggono
dai tetti
grigi, alla francese!

                          […]

                          La luce si abbassa,
Belleville
mi ride alle spalle
e lancia
i suoi figli
sotto la mia finestra
ad urlare
frasi surrealmente
sconnesse
sicché
torno a guardare la luce calare,
coloro i miei personaggi
irreali…
li perdo a Belleville!

In questa poetica di sinestesie e di fusioni, anche il tempo cessa di essere il meticoloso collezionista di eventi ordinati cronologicamente, ma diviene al posto un’espressione del linguaggio e del silenzio, “senza ruote”:

                          Dialoga il tempo
in un idioma
familiare:
è il silenzio che
– senza ruote –
ride di te e va in giro
ballando sull’asfalto viscido,
bagnato
di pioggia.

Ed ecco infine, come si era detto già all’inizio, la magia delle parole della poesia che divengono i canali della comunicazione e del colore:

                          Le parole si miscelano
solitarie
scendono lungo canali scomodi
si fermano
su piste battute dal vento:
chiudono gli occhi
abbandonano la mente
si lasciano andare, si sciolgono
sono chiazze di colore
rosso
e bianco
accostate.

In tanta varietà creativa, non poteva mancare anche l’ispirazione fornita dalla poesia d’amore, forse un poco pensierosa e più carica di nostalgia e di sodalità che non di passione dei sensi, ma certamente soave e costruttiva, come leggiamo nei versi di riflessione quasi amara compiuta su stessa, ma che si aprono e si illuminano al pensiero di collaborare nel viaggio della vita con il partner amato:

                          […]

                          ora è vuoto di emozioni
è vuoto che lentamente avanza
e ti spegne
e ti prosciuga, e ti sfinisce
di tristezza,
prende forma un sentiero
si modella, parla di te
del tuo nuovo arrivo:
ti prendo per mano…
piccoli passi… andiamo.

La poesia di Lionella Favretto è un concento di emozioni appena accennate nel tratto della parola poetica, che non si ferma a circostanziare i particolari della realtà mondana, ma che punta invece a rappresentare, per pennellate e per segmenti, il significato profondo degli eventi quotidiani con cui è costruita la nostra vita: è un viaggio di scoperta, affascinante e incantatore, dei nessi sotterranei che agiscono come sinapsi immediate nel nostro cervello e che uniscono analogicamente le cose e i sentimenti apparentemente anche distanti fra di loro, ma armonicamente orientati verso un’ipotesi di bellezza unificante che illumina di speranza il nostro cammino sempre fino troppo incerto ed effimero.

Sandro Gros-Pietro

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