Prefazione

Domenico Defelice appartiene agli archivi della me­moria letteraria dell’ultimo Novecento e della prima metà del Duemila come scrittore di alacre impegno esercitato sui diversi fronti della poesia, della narrativa, della critica e della rivista letteraria di spessore culturale. Alla grazia e alla preparazione dell’uomo di lettere, Domenico Defelice ha sempre aggiunto la mordacità sarcastica e irridente del ca­stigatore della dabbenaggine degli sciocchi, ancora più del­la bassezza morale dei cialtroni e massime della prepotenza dei violenti. Tuttavia, la natura dell’uomo, che ha prodotto nella sua lunga e operosa vita una montagna incantata di au­tentica cultura, divulgata con perizia e semplicità anche ai non abituali frequentatori delle alte cime, è rappresentata da una delicata e dolce gentilezza d’animo: una devozione solida agli affetti più cari dell’esistenza, a principiare da pa­dre e madre, poi la moglie, i figli e i nipoti, per finire con una franca lealtà e fiducia nei valori dell’amicizia. Su que­st’ultimo punto, si raccomanda di riflettere sulla splendida nota amicale che l’eruditissimo Emerico Giachery dedica al­l’amico Poeta, collocata al termine del libro, quasi in for­ma di congedo augurale, come si costumava fare un tempo e tuttora si rinnova tra sodali della letteratura. Proprio Giachery, splendida mente critica della nostra letteratura e non solo di quella, è sempre stato propugnatore della formula “letteratura come amicizia”, già lanciata dalle colonne della raffinatissima rivista L’occhiale, condotta in tandem con il compianto e inimitabile Andrea Rivier, nom de plume di Romano Romani (cittadino di Roma, va da sé). Domenico Defelice, da par suo, è fondatore e conduttore della rivista Pomezia Notizie, un coraggioso mensile letterario che è ben noto e apprezzato in tutto il Bel Paese, dalle Alpi alle Piramidi.
Il libro Le parole a comprendere reca già nel titolo quella significazione al plurale che poi in tante occasioni si rinnova nel discorso di Defelice: qual è l’orizzonte di lettura? Qual è il significato del “segno”? Si tratta di parole che il lettore dovrà comprendere? Oppure sono parole che comprendono e spiegano la situazione del lettore? La funzione riflessiva e transitiva esercitata dal “segno” è doppiamente valida: bisogna comprendere le parole, ma sono anche le parole che ci comprendono. Questo chiarimento, apparentemente retorico o pleonastico, serve a richiamare la valenza plurale del linguaggio poetico adottato da Domenico Defelice: le mot c’est tout, e basta! Ma se la parola è tutto ciò che c’è, significa anche che il Poeta deve usare tutte le parole che ci sono. Ne deriva che bisognerà fare esercizio su tutti i tasti della tastiera. Il Poeta conoscerà tutti i codici, perché il suo codice sarà un codice plurale; e applicherà tutti i canoni, perché il suo canone sarà un canone plurale. Dunque, ecco perché il libro di Defelice è uno e quaterno contemporaneamente. Si tratta sempre di parole a comprendere, come recita il titolo eponimo, ma aperte a ventaglio su so­luzioni di linguaggio, di stile, di contenuto molto differenziate, anche se sempre simili, come lo sono le ottave del pianoforte.
Il libro si svolge in quattro parti, più la postfazione, come accade nelle danze popolari bretoni: cinque passi in quattro tempi musicali. La prima parte è quella eponima, giustamente delegata dall’Autore a fare da icona a tutto il libro. In essa il presagio della morte è incombente sull’atmosfera peraltro allegra del libro. È un’allegria di naufragi, nell’autentico senso ungarettiano di lettura: l’allegria nasce dopo essere filtrata tra il dolore e la disperazione, come sentimento gioioso e caduco per avere superato l’appuntamento con la morte. Nel passaggio funereo della morte, a chi rimane resta in consolazione o in parziale risarcimento del danno irreparabile subito con la perdita della persona amata, la dolcezza del ricordo del tempo felice, che la poesia contribuisce a sigillare, come l’insetto catturato nell’ambra, né mai più potrà decadere e divenire polvere. Questo è il senso di tante ricordanze dedicate dal Poeta alle care persone che lo hanno accompagnato negli anni più belli. Mirabile appare la poesia L’allegrezza di mio padre: in essa il ricordo del genitore è inscindibilmente unito al ricordo del­la terra avita, che poi il poeta ha venduto, ma, quasi co­me novello Enea lasciatosi alle spalle Troia, ha rifondato in un nuovo luogo, suscitando la gioia di Anchise. Similmente, il padre del poeta osserva con gioiosa ammirazione i déjà vu della nuova abitazione del figlio, l’edera, l’acacia, l’alloro, il castagno, il sambuco, i pitosfori, la passiflora. Va detto che Defelice è un poeta fortemente ecologico: un tempo si sarebbe detto “virgiliano” o bucolico, ma oggi si conviene soggiacere alla nuova moda. Il simbolo della morte che cancella ogni cosa, ma ci lascia i relitti della vita su cui noi elaboriamo la difesa dei sogni dall’erosione del tempo è rappresentato da Ötzi, il cacciatore alpino catturato dai ghiacci circa cinquemila anni or sono e recentemente restituito alla nostra devota attenzione: quell’uomo passeggiava sui ghiacci delle Alpi quando in Africa, sulle sponde del Nilo, la civiltà egizia era appena ai suoi primi albori. Vi sono anche le memorie recenti, di un passato prossimo a noi molto vicino, come sono i versi dedicati al poeta Peter Russell, straordinaria anima gentile del Novecento, autentico praticante della formula letteratura come amicizia. La morte non si limita a lasciarci delle reliquie della vita di chi non è più con noi, ma suscita anche degli armoniosi presagi che ci incantano e ci fanno sognare, come è bene rappresentato nella poesia Sei tu quel pettirosso, dedicata a Geppo Tedeschi, che il Poeta immagina di ritrovare nel cinguettio di un pettirosso accorso a salutarlo ap­pena sveglio di mattino, quando il Poeta inizia la giornata nell’albergo ove ha preso alloggio in occasione di un passaggio nella terra natia. Non è da credere che Le parole a comprendere siano una sorta di Spoon River Antology in omaggio a Edgar Lee Master e che quindi siano evocazione delle vite dei morti. La verità è tutt’altra: il libro è un inno di esaltazione della vita, ed è anche testimonianza delle tre età dell’uomo, così care ai pittori, basti pensare a Tiziano. La fanciullezza, la maturità, la senilità si alternano nelle pagine di poesia, vuoi per raccontare la vita del Poeta, vuoi i suoi amori di gioventù, il suo unico amore con la compagna della sua vita e madre dei figli, ma anche gli stessi figli e i nipoti divengono testimoni viventi del flusso eracliteo del tempo.
Nella parte seconda del libro, chiamata Ridere (per non piangere), il poeta abbandona la cetra e il flauto del canto virgiliano sulle bellezze della natura e sui presagi di vita che animano l’universo circostante. Cambia la musica, perché ora impugna fioretto e nerbo, prende a fare il censore catoniano o meglio l’osservatore satirico alla Orazio. Le poesie sembrano dei “commenti di giornata”, delle eleganti “lettere al direttore” di un’immaginaria testata che si interessi di politica, letteratura e costume. Alcune composizioni richiamano alla mente le celeberrime pasquinate ap­pese nottetempo alla statua di Pasquino, nella piazza omonima di Roma, dal XVI secolo per arrivare fino ai giorni nostri. Uomini dello spettacolo, comportamenti anonimi ridicoli o criticabili, sbeffeggiamenti politici, critiche alle ragion di Stato e indiscrezioni da boudoir. Non sorprende che il principale parafulmine destinatario di tanti strali sia il noto “Cavaliere Invincibile” della politica italiana, ma non mancano fiorettate a destra e a sinistra del tycoon italiano, co­me vengono lanciati fulmini fino al di là dell’oceano.
La parte terza, Epigrammi, e la parte quarta, Recensioni, sono autentici benevoli scherni letterari, giochi di astuzia blandamente irriverenti, ne fanno le spese personaggi anonimi e personaggi noti sia del mondo civile e politico, che passa quasi quotidianamente per la televisione, sia personalità di studiosi, critici e scrittori, alcuni molto noti al grande pubblico, altri conosciuti solo dagli addetti ai lavori e per questi ultimi in qualche caso le critiche possono ap­parire fin troppo feroci. Diceva Fedro Derideri merito potest, qui sine virtute vanas exercet minas, si può giustamente deridere chi senza valore fa lo spaccamontagne, tuttavia deridere i poeti, a giudizio di chi scrive, è sempre un po’ come sparare sul pianista: non è certo lui che fa danni! Resta il fatto che, quando lo scherzo è fatto con buon gusto, è sempre be­ne accetto da parte di tutti, perché rimane comunque una prova di stile.
Lo stile franco, aperto, amichevole e incantato di Domenico Defelice resta una delle esperienze più serene, briose e feconde della poesia italiana di questi anni, per la gioia che trasmette verso i valori fondanti della vita, in primo luogo gli affetti e le amicizie, e per il coraggio e la profondità di cui dà mostra nel riflettere sulla brevità e sull’effimero della condizione umana, senza perciò mai lasciarsi andare ad avere atteggiamenti lacrimosi, imploranti o rancorosi verso la sorte che incombe su tutti noi.

Sandro Gros-Pietro

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