Dallo sciopero generale alla rivolta del pane di Torino (1915-1917)

INTRODUZIONE

Gli operai torinesi dell’agosto 1917: contro la guerra, per la rivoluzione Pur non essendo uno storico di professione, Faustinella conosce bene il mestiere di storico e lo esercita con sagacia. Il fiuto, che ogni ricercatore sviluppa con l’esperienza, lo ha portato a isolare e selezionare come rilevante una fonte archivistica inedita. E subito scatta la domanda dello storico: “i fatti di Torino” dell’agosto 1917 cosa sono stati? Una rivolta spontanea legata alla mancanza di pane o una prova di rivoluzione in parte programmata e guidata da avanguardie socialiste e anarchiche, con l’obiettivo politico immediato di mettere fine alla guerra e magari “di fare come in Russia”, contagiando col virus torinese le altre città industriali del Nord?
Torino è una città che tra la “settimana rossa” dell’estate del ’14 e l’agosto del ’17 mostra un volto evidentemente “rivoluzionario” rispetto a Milano, nonostante e forse proprio a causa delle sconfitte elettorali patite dalla multiforme e ingovernabile sinistra torinese. Un volto che nel 1917 assume le sembianze di una “rivoluzione sociale” dagli esiti imprevedibili, a detta di un liberale come il direttore della “Stampa” Alfredo Frassati, stante la coincidenza esplosiva tra la rivoluzione in Russia, l’andamento fallimentare della condotta italiana della guerra, la sfida costante dell’area patriottica e interventista, e il carovita, la contrazione salariale e la penuria di generi alimentari nei grandi centri industriali come Torino. Benzina sul fuoco della propaganda rivoluzionaria delle Camere del lavoro e delle sinistre rivoluzionarie – gli anarchici e i socialisti che decidono di definirsi “rigidi” –, che sono ancor più radicali proprio in quelle realtà nelle quali, come a Torino, i socialisti riformisti moderati governano il partito con una maggioranza di stretta misura. Il contrasto con i socialisti moderati si attenua proprio nel 1917, quando la crisi economica e militare spinge la direzione nazionale del Partito socialista a una più accentuata offensiva pacifista. La sezione socialista torinese si affretta ad adeguarsi, creando una parziale saldatura oggettiva tra l’ala moderata dei socialisti torinesi, Casalini, Morgari, Buozzi, Romita, e i rivoluzionari come Francesco Barberis, la Giudice e i giovani della Gioventù giovanile socialista, che con Gramsci miravano ad una revisione di classe della tradizione socialista e si riconoscevano appieno nella imponente mobilitazione di giovani operai, e soprattutto di donne, che furono l’anima della rivolta, pur cogliendone l’improvvisazione e l’impreparazione. In una Torino, per di più, priva di guida, a causa delle dimissioni presentate nel giugno 1917 dal sindaco Teofilo Rossi, giolittiano neutralista, stretto nella morsa tra gli interventisti alla Mussolini e i pacifisti rivoluzionari alla Barberis.
La vera questione, in realtà, mi sembra quella dello spirito rivoluzionario della classe operaia torinese, e di come veniva declinato al suo interno il binomio pace/rivoluzione: se e quanto, cioè, dalla forte esigenza della prima – la pace – scaturisse una effettiva esigenza politica della seconda – la rivoluzione. Se si resta a livello delle avanguardie politiche, il quadro è certamente complesso, ma alla fin fine alquanto desolante nella sua prevalente costante litigiosità: la Direzione nazionale del Partito socialista che prendeva tempo convocando un Convegno nazionale a Roma nel settembre ’17; i “rigidi” di Torino, Milano e Napoli, cioè i più decisi fautori dell’indissolubilità di quel binomio, molto bellicosi a parole, assai polemici nei confronti soprattutto dei propri compagni, piuttosto che verso i molti che gettavano acqua sul fuoco, con un contorno di parecchi opportunisti e di non pochi infiltrati, reclutati e finanziati dalla prefettura, dai vertici delle forze dell’ordine e dagli industriali come Giovanni Agnelli e Dante Ferraris.
Resta il fatto che nell’estate del ’17 il binomio pace/rivoluzione sembra saldarsi indissolubilmente, non tanto per la presenza di un progetto politico rivoluzionario definito e operativo, quanto a seguito degli sviluppi della situazione in Russia, che a Torino diventa operante presenza con gli Argonauti della pace, una delegazione di menscevichi russi giunta in Italia nel luglio ’17, con tappa a Torino il 13 agosto; e a seguito della penuria di pane, che scava come una vecchia talpa negli umori della classe operaia torinese. Paradossalmente il tratto più significativo che emerge dalla visita della delegazione russa è la radicalizzazione leninista e rivoluzionaria degli operai torinesi rispetto alla posizione più moderata e possibilista, anche riguardo alla scelta tra guerra e pace, degli emissari di Kerenskij. Quando, a partire dalla fine della prima settimana di agosto, il pane viene a mancare in tutta la città, si scatena la protesta popolare, che rapidamente diventa sciopero, saccheggio, insurrezione, aggravata dal comportamento delle autorità, soprattutto il questore che, chiudendo la Camera del lavoro e arrestandone i principali esponenti, mette a tacere ogni istanza sindacale e politica che avrebbe potuto esercitare forme di mediazione e controllo, almeno parziale, delle masse inferocite. Come ebbe a scrivere Gramsci, cogliendo la saldatura tra una minoranza attiva e “la immensa passività sociale, gli indifferenti”: “Ora anche l’immensa passività si organizza in pensiero, si disciplina, non secondo schemi esteriori, ma secondo le necessità della sua vita propria, del suo pensiero nascente. […] Il disagio è l’orologiaio che fa scattare insieme tutte le molle, che imprime un movimento sincrono a tutte le lancette. Il disagio è l’orologiaio che ha creato un’unità sociale nuova, con stimoli nuovi, non esteriori, ma interiori. Un’unità sociale più estesa di quella che ieri esisteva determinata dalla stessa causa. Ieri il disagio era il rapporto di insoddisfacimento tra un dato pensiero politico ed economico, tra un bisogno e una delusione, oggi è lo stesso rapporto, colto da una moltitudine, da una quasi totalità”.
L’orologio della rivoluzione, che forse ha scoccato finalmente la sua ora, paralizza l’intera produzione industriale torinese. A piazza Statuto, il 23 agosto, i primi due operai uccisi dai proiettili esplosi dai militari. Il giorno dopo altri sette morti, con l’esercito mobilitato contro i rivoltosi. E così per quasi una settimana, con un bilancio finale di quarantuno morti e circa duecento feriti.
In realtà, le giornate torinesi dal 22 al 27 agosto 1917 furono espressione di una lotta popolare spontanea, che andò ben oltre la protesta legata alla mancanza di pane, per assumere una connotazione politica, prima di tutto contro la guerra, ma con consistenti inflessioni rivoluzionarie, costantemente evocate dall’esempio russo e tenute vive dalla propaganda dei “rigidi” e degli anarchici. Con attacchi a caserme e chiese, con l’uso di armi anche da parte degli scioperanti, e senza ottenere solidarietà da parte dei militari che li fronteggiavano. Ma rimasero sostanzialmente in ambito locale torinese – anche perché l’Italia di allora era assai poco connessa, anche per opera della censura – e quindi non furono la scintilla della rivoluzione italiana, che peraltro, data la consistenza della destra interventista, sarebbe probabilmente stata piuttosto una guerra civile, con il paese sull’orlo di una sconfitta militare.
L’Autore ricostruisce le premesse della rivolta e restituisce il clima di montante tensione di quei giorni. Mette in luce le divisioni in campo socialista, gli irresponsabili conflitti tra autorità politiche e comandi militari, la grave mancanza di coordinamento tra governo centrale e istituzioni locali, il gioco perverso delle mosse spregiudicate e criminali di chi soffiava sul fuoco, in una vera e propria messa in scena di fake news ante litteram. E, a coronamento di questo efficace affresco della complessità della realtà torinese di quei giorni, pubblica la relazione inedita del tenente generale Eugenio Caputo, presidente del Comitato Regionale Mobilitazione Industriale del Piemonte.
È vero, come Faustinella dice, che la relazione Caputo non aggiunge o modifica nulla rispetto alle altre fonti utilizzate dalla storiografia sull’argomento, ma la sua pubblicazione, a mio personale giudizio, ha un particolare valore aggiunto, per almeno due ordini di motivi. Primo. Il suo estensore è senza alcun dubbio un fedele servitore dello Stato, di cui condivide ideologia, valori e norme; attento e prudente, ma non reticente nel far trasparire i limiti della risposta istituzionale, politica e militare al montare della rivolta; netto nell’individuare le responsabilità principali dei capi socialisti più radicali e rivoluzionari e dei loro alleati, ma senza indulgere in eccessi verbali, e perfino concedendosi, nel delineare la presa di una minoranza di operai politicizzati sulla maggioranza, una frase significativa per due ammissioni: la conferma che lo sciopero coinvolse la maggioranza delle maestranze torinesi, e che la minoranza, “composta com’è dei più turbolenti e se si vuole anche forse in buona fede entusiasti per ideali non raggiungibili”, è riuscita a legare temporaneamente lo strumento dello sciopero con l’obiettivo della rivoluzione. L’involuta costruzione della frase – “anche”, “forse in buona fede”, “ideali” ancorché utopistici – resta nero su bianco e dice molto.
Secondo. La relazione è sapientemente costruita, chiara, sintetica, ma giustamente particolareggiata negli aspetti che Caputo ritiene rilevanti, anche e soprattutto in prospettiva futura: la sottolineatura della tattica dei rivoltosi, organizzati in modo da dislocare gli operai rivoluzionari in stabilimenti lontani dalla propria sede lavorativa, per non essere riconosciuti dagli ufficiali di sorveglianza; la copertura offerta da donne, giovani e operai borghesi agli operai militarizzati comandati al lavoro, passibili di sanzione in base al Codice penale militare. Su questi ultimi, gli O.M., cioè gli operai militari esonerati, dispensati e a disposizione, Caputo si sofferma a lungo, quasi volesse suggerirci un adeguato approfondimento storiografico, trattandosi di oltre ventimila solamente a Torino: anima della rivolta, cui “parteciparono con l’eccitarsi e con l’eccitare”, al prezzo di due morti, undici feriti e oltre centocinquanta arrestati. Analogo approfondimento, sempre su “suggerimento” di Caputo, meriterebbero gli ufficiali di sorveglianza, dislocati singolarmente in ogni stabilimento, il cui ruolo, al netto del plauso di rito per coloro che hanno fornito all’estensore larga parte delle informazioni necessarie, appare di primissimo piano nel controllo e nella neutralizzazione della rivolta. Dunque Faustinella ha costruito una propria esperienza di storico, che proviene non certo da uno spoglio casuale di buste, faldoni e fascicoli, ma da un bisogno di indagine su alcuni temi di fondo, dal quale si compone progressivamente una spirale di acquisizioni intermedie, di risultati parziali, di nuovi interrogativi che promanano da quella spinta iniziale, come nel caso di questo libro. È un ritmico e progressivo movimento culturale individuale, una sorta di respiro intellettuale che trae ossigeno dall’ampiezza dello scenario iniziale. Potrei sbagliare, ma credo che anche l’attività culturale di Faustinella nella sua Sezze, la sua propensione artistico-musicale, soprattutto la sua apprezzata vena letteraria e poetica siano parte coerente di quel movimento a spirale.
La collocazione dell’uomo nei passaggi tragici della vita, individuali e collettivi, ha portato Faustinella ad indagare la dimensione sociale e civile della guerra, spingendolo a trascrivere integralmente il Bollettino settimanale delle agitazioni operaie nel 1917-18 (Lo spirito delle maestranze si conserva buono, Roma 2017), dopo aver già indagato le nuove forme di controllo, e di agitazioni operaie, nella Mobilitazione industriale durante la prima guerra mondiale (Mobilitazione, controllo e agitazioni operaie in Italia durante la prima guerra mondiale (1915-1918), Roma 2014). Ma la dimensione sociale e umana della guerra è fatta di tante infinite storie di uomini senza volto e senza nome, militi ignoti che meritano di rientrare nella storia attraverso la porta del culto e del mito (Il culto dei caduti – Sezze 1915-1920, Roma 2015 e Sezze 2019), microstorie di vittime che hanno conosciuto l’abisso della deportazione razziale e dello sterminio e meritano di essere reinserite nella grande storia (Perché andate facendo tutto questo? La famiglia Campoli-Fattorini e il rastrellamento degli ebrei a Sezze nell’autunno del 1943, Sezze 2019).
La rivolta del pane a Torino, dunque, è una tappa importante di un percorso complesso ma coerente. Infine esprimo un giudizio molto personale: tra i lavori di Faustinella, questo è il più importante, quello di più ampio respiro. Arricchito da numerosi documenti inediti, come due lettere di Artuto Vella a Giuseppe Romita dell’agosto 1915. E da vividi ritratti di alcuni dei protagonisti della storia torinese, che la ricchezza della documentazione consente di mettere opportunamente in risalto, come la figura del prefetto di Torino Edoardo Verdinois.

Luciano Zani
Roma, 16 gennaio 2022