In confidenza ed altre confidenze
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Prefazione La straordinaria vena poetica di Renato Greco ha fatto di lui un caso unico nel panorama letterario degli ultimi trent’anni tra gli autori italiani. Non si tratta solo di un’eccellenza riguardante la meraviglia quantitativa della sua poesia, che è una fonte inarrestabile e massiva di sempre nuovi versi, ma ben di più è una considerazione attinente la qualità del suo discorso poetico, che è modulato su una pluralità distinta di argomentazioni e di forme del dire. In un simile dispiegato oceano di versi, con una così diversificata caratteristica di traversate e di approdi, non si deve credere tuttavia che non trionfi un ben delineato senso dell’unità e del direzionamento affabulatorio della parola. Ciò va detto per chiarire che il Nostro non rappresenta la dimostrazione dell’impossibilità di abbracciare unitariamente le differenti anime presenti in uno stesso autore. Infatti, a differenza di Ferdinando Pessoa, in lui non convivono più eteronimi in compresenza di un presunto ortonimo centrale, perché il Poeta di Modugno, in verità, non si sdoppia da sé stesso, né si osserva al di fuori di sé, né liquefa la sua personalità in altre forme artificiose di presenze immaginarie. Renato Greco è sostanzialmente la moltitudine del discorso poetico. Non lo è neppure nell’accezione del maledettismo rimbaudiano consistente nel provare l’estasi con l’annullamento di sé – Je est un autre – come intende fare il poeta Veggente di Charleville che sfida i parnassiani a scrollarsi di dosso l’ingessatura delle forme artefatte; non lo è neppure come emulo di Walt Whitman che, nelle sue Foglie d’erba, ama enfatizzare la libertà di contraddirsi “Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico, sono vasto e contengo moltitudini”. Renato Greco ama espandersi armoniosamente su un inesauribile catalogo di possibilità della poesia. Scherzosamente potremo dire che egli impersona un Alessandro Magno della Poesia, il quale applica lo stesso imperio su tante genti fra loro diverse o se si preferisce egli fa il verso di Carlo V, il quale afferma che “sulle mie terre non tramonta mai il sole”. Ovviamente, per rendere sempre capace e congruente il medesimo canone di canto poetico in situazioni letterarie del tutto diverse, si dovrà sviluppare un registro ricco e compositivo di espressioni poetiche, purché fra loro armoniosamente intonate. È proprio questo il caso del Nostro. C’è un’elezione meditata del linguaggio poetico a cui l’Autore resta sempre fedele. Si tratta di un linguaggio sostanzialmente antiletterario e, al contrario, votato al messaggio, alla comunicazione lineare, con espressioni linde e cristalline, con locuzioni piane e un lessico molto pulito, rigoroso, sempre pertinente, ma anche filtrato nell’uso il più possibile ordinario, talvolta con qualche intersezione alta o anticata, come il toscanismo leticare in luogo di litigare o altri inserimenti inopinati, presi a prestito da qualche prelibatezza dialettale o da barbarismi. Una caratteristica di stile consiste nella misura del verso che è sempre porzionata sulle quantità metriche della tradizione italiana, principalmente l’endecasillabo, ma anche il martellante decasillabo di gusto manzoniano, come il leopardiano accostamento di endecasillabi con settenari e il ricorso al verso breve, tipo il quinario. Molto sovente accade che la poesia sia composta da versi franti, spezzati in due porzioni, ma non si tratta di due emistichi, bensì quasi sempre sono due versi autonomi, il primo solitamente più ampio, il secondo più breve, collocati in sequenza, sullo stesso piano di declamazione, eppure giustapposti, il primo da una parte, il secondo distanziato, sicché sovente si viene a creare un senso autonomo di lettura, quasi fosse possibile leggere in successione tutti i versi lunghi da una parte e tutti i versi brevi da quell’altra, per ricavarne due significazioni autonome ma intimamente collegate. Altre volte invece appare indispensabile passare da un piano di recitazione all’altro per ricavare il significato unico e inscindibile del componimento poetico. C’è, dunque, in Greco, anche una pluralità di lettura, che è una lontana eco delle parole in libertà dei futuristi. Una caratteristica che è già stata più volte sottolineata è l’abolizione integrale della punteggiatura, perché le pause periodiche sono date dal verseggiare del Poeta e dall’enfasi delle lettere maiuscole che vengono adoprate per fornire al lettore il segnale visivo del fiato poetico che anima i versi. Una caratteristica distintiva del discorso poetico di Renato Greco è l’uso corretto delle forme finite dei verbi, coniugate con rigoroso rispetto sintattico dei modi prescritti e, quindi, con assoluta parsimonia, fino dove possibile, delle pastoie dei verbi impiegati all’infinito o peggio ancora al gerundio, cioè privati della specifica coniugazione per modi e per tempi. Al riguardo andrebbe anche non sottaciuta la vocazione quasi polemica all’uso marcato del congiuntivo: una sorta di rivendicazione, una revenge avversa alla moda imperante di asfaltare l’azione verbale con un indicativo coprente che annulla ogni ipotesi congiuntiva. Sandro Gros-Pietro |
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