Il precetto del grimpeur
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PREFAZIONE Piero S. Costa, già docente di storia e filosofia nei licei, ha alle spalle un percorso di pubblicazioni poetiche, che copre circa quattro lustri e che è scandito in più di una dozzina di titoli. Ha esordito in poesia all’interno del gruppo di intellettuali che sul finire degli anni ottanta e lungo gli anni novanta dello scorso secolo agivano in Torino nella libera associazione Cultura e Società, che dispone anche di un marchio da editore, e che è improntata a un impegno di studio, documentazione, testimonianza e, nei limiti del possibile, anche di azione civile. Animatore di tale gruppo è Ernesto Vidotto. Dopo l’opera prima, Autoterapia, uscita nel 1996, Piero Costa dà alle stampe due libri di poesia in dialetto piemontese, precisamente Arcòrd d’ën tèmp dësblà (1999) cui fa seguire E, ’n sla fin, soma ’n cros (2002), che rivisitano e rinnovano la tradizione della poesia dialettale di Torino, celebrata da Nino Costa e Pinin Pacòt. Tuttavia, nei successivi libri di poesia, Costa attua una totale riformulazione dei canoni poetici e passa a una poesia di riappropriazione del linguaggio poetico della tradizione letteraria sia per quanto riguarda il lessico sia per quanto concerne la proposizione di forme chiuse della metrica classica. Non si può negare che vi sia una buona intenzione di polemicità in questo tipo di poetica. Costa intende reagire alla sciatteria del poetichese che è divenuta di gran moda. Cioè intende polemizzare con una poesia che è poveramente propositiva sia di contenuti sia di forme e che si limita a organizzare vanesi chiacchiericci sulla carta bianca, con il ghiribizzo di andare a capo prima che finisca il rigo. È una poesia che riesce facilmente a parlare di tutto, ma che non riesce a trasmette assolutamente niente. Tuttavia, non è da credere che Piero Costa si elevi a censore e ancora meno a cipiglioso accademico, incline a riversare sugli altri colleghi poeti il suo nobile sdegno pronunciato dall’alto dei coturni tragici. Nulla di tutto ciò, perché Costa sceglie il versante ludico dell’ironia e del gioco intelligente. Tutta la poesia di Costa diviene, pertanto, un discorso intorno all’intelligenza umana e alle “ragioni della ragione”; la poesia, in lui, diviene, un discorso proveniente dalla mente e non già del cuore. Anzi, per sottolineare questa scelta di campo, Piero Costa adotta il vocabolo latino mens, che assurge a specifico intercalare posizionato nel testo a iosa, con l’intenzione di marcare la cifra d’autore e di contrassegnare la proprietà di un territorio poetico bonificato dall’insignificanza del parlottio scomposto, che è tipico, invece, della poesia ciabattona. Va subito chiarito che esiste una bona mens e, per contro, esiste anche una mala mens. Il che è come dire che esiste una egregia ragione nelle cose del mondo a cui fa da contraltare una perfida lucidità di intenti e di attuazioni vuoi meschine vuoi criminali, ma comunque anch’esse architettate dalla ragione. Il discorso poetico, allora, diviene una rete di situazioni o se vogliamo un intreccio di percorsi mentali con cui esplorare la scena del mondo, all’insegna del lanternino di Demostene, il quale, essendo filosofo dell’antichità, sapeva distinguere il bonum dal malum. Invece, noi oggi, personaggi interpreti di una modernità omogenea e globalizzata, sappiamo che Demostene è divenuto un puro ideale astratto, forse, inutile e magari anche impossibile da praticare, perché ai giorni nostri non è più proponibile alcun atteggiamento manicheo, come tante altre cose divenute impraticabili nella vita reale (per esempio, andare a spasso per la città a cavallo di un focoso destriero), così molte altre cose sono divenute impraticabili nella vita spirituale della mens (per esempio, praticare il manicheismo di Demostene). Da qui nasce la splendida ironia di Piero Costa: egli conduce una ricognizione sui valori etici della vita, sapendo che tale eticità è fortemente messa in dubbio dalla nostra cultura più coerente e avanzata, la quale al massimo potrà accettare una ricognizione estetica, intorno alla definizione della bellezza, ma è diffidente di ogni misurazione o mappa territoriale intorno alle zone del bene e del male. Piero Costa, con un processo razionale che adduce all’ossimoro, propone l’attualità dell’anacronismo: cioè, discetta sull’importanza di non perdere il filo di un ragionamento antico che conduce in tempi diversi dai nostri. Ma sarà veramente così? Sembra chiedersi il poeta, il quale sembra rispondere che sì, vale la pena di porci la mens sopra e di mettersi a ragionare sull’attualità dell’anacronismo. Sandro Gros-Pietro |
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