Memorie e figure di fine millennio
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Il filo e il gomitolo del ricordo Il nostro tempo pare mostrare un’ostinata resistenza ai ricordi. Ma, d’altra parte, la poesia, e in genere la scrittura letteraria, si fondano sul ricordo sin dai tempi più remoti (Mnemosine, nei santuari dell’antica Grecia, era raffigurata insieme alle Muse, le sue figlie). E non pochi grandi scrittori recenti sono tornati sulla questione: la poesia «chiama in causa la memoria» scrive Iosif Brodskij mentre Sebald vede nello «studio del tempo: del tempo passato e di quello che passa» l’attività primaria di chi si serve della penna a fini non strumentali o produttivi. Eppure infilare i grani di ciò che è stato nel polveroso e luccicante, a un tempo, rosario delle parole è esercizio che suscita scandalo; e può anche costituire – soprattutto per chi lo fa senza compiacimenti estetizzanti o toni d’idillio – un grande rischio in quanto attira su chi si dedica a conservare e restaurare nella mente e nei versi il passato, l’ira di coloro che soltanto in un presente coincidente con l’oblio possono vivere. Inoltre, provarsi in questo compito – che è anche un rito d’evocazione – è meno facile di quanto possa sembrare: la memoria ha per sua fonte costitutiva un senso di incompiutezza, s’interrompe e riprende a suo capriccio. Non è un’attività lineare né volontaria. A volte latita, a volte ci sommerge come una marea atlantica lasciando sulla spiaggia dell’io detriti che sono tormenti. Nella Genealogia della morale Nietzsche scriveva: «soltanto quel che non cessa di provocare dolore resta nella memoria». Enrico Testa |
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