Fuga del tempo
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Prefazione Nella poesia di Luigi De Rosa vi è sempre stato un fremito di ricerca e un’inquietudine per gli esiti incerti di ogni umana fatica, tale da caratterizzare in modo inconfondibile questo scrittore che canta la bellezza con accenti armoniosi e solari, ma anche colmi di nostalgia. Luigi De Rosa è l’autentico métèque della poesia italiana, simile in parallelo a Georges Moustaki che è stato lo straniero della canzone. La nota ballata del compianto chansonnier si conclude con una terzina di disperata dolcezza che ricorda le atmosfere tipiche della poesia di De Rosa. Canta Moustaki L’amore durerà / per una breve eternità / finché la morte non verrà. Tale struggimento per la precarietà dell’eterno è al centro dell’ispirazione del nostro poeta campano-ligure, grande cantore dell’amore, della natura, dei viaggi, dell’impegno sociale, della giustizia e della libertà. Ma De Rosa è anche lo straniero della vita che – per dirla alla Moustaki – ha “attraversato senza sapere dove va”, ma con generosità si è “fermato a bere ad ogni fontana”, ha partecipato emotivamente a ogni sogno, e tuttora si porta in petto il calore di “mille cuori innamorati”. Il sentimento del “meticciato esistenziale” rappresenta, dunque, la cifra poetica distintiva di De Rosa e la sua specialità creativa. È quel sentirsi chiamato a errare per le strade del mondo, con tutta l’ambiguità e le possibilità che l’azione verbale porta con sé: il viaggio e lo smarrimento, la curiosità e l’illusione, l’esplorazione e il randagismo, cioè tutte le luci e le ombre dell’inquietudine esistenziale, mai sazia né chetata. Il cuore divampa di emozioni e la mente si carica di ricordi. Il poeta riempie quaderni e taccuini con pensieri, parole, annotazioni di fatti e di sentimenti che dovrebbero servire a conservare intatto nel tempo il valore inestimabile del viaggio compiuto attraverso la vita. Ed ecco che, con tutti quegli “amori appassionati”, il poeta celebra il suo autodafé alla Elias Canetti, accende il rogo della memoria con la fiamma annichilente della distruzione. Dice il poeta: “ho fatto in giardino un fumigante, / doloroso falò”. In questo fuoco liberatore e censorio, alimentato con le sudate carte, c’è qualcosa che ci fa ricordare il pompiere Montag in Fahrenheit 451, il quale prima si impegna a distruggere i libri e poi si ravvede e si sforza di salvarne il contenuto perché capisce che nei libri è racchiusa l’unica forma possibile di giustizia e di libertà per gli uomini. La stessa cosa fa De Rosa, che brucia i suoi taccuini, fogli e libri, ma che, come ci confessa nella poesia La sorte dell’empio e del giusto continua e continuerà per sempre “a leggere libri”, anzi quando infine giungerà alla sua foce, prevede che morirà “coi libri al capezzale”. Anche sotto l’aspetto del bibliofilo suo malgrado, il poeta si sente simile, non senza provarne stupore, all’amato padre, alla cui figura sono dedicate splendide poesie, tra cui vale la pena di citare Caro Papà: “Ormai quelle piramidi di libri, / testimonianze di cultura classica, / di politica, di lavoro commerciale, / i tuoi mobili antichi, i rifugi segreti / traboccanti di lettere e di foto, / sopravvivranno solamente in me, / in questo cuore angosciato dai dissidi / di un’esistenza da bambino a uomo, / per non essermi mai sentito compreso / e non averti, a mia volta, compreso.” Ma nel fuoco che brucia le parole scritte sulla carta c’è da parte di De Rosa una metafora anche più sottile e più profonda di quella elaborata da Ray Bradbury nel citato romanzo di fantascienza, per altro ispirato ai precedenti capolavori di Huxley e di Orwell. Si tratta per l’esattezza del problema che ha sconvolto ed empito d’ansia l’ultima fase della poesia di Giorgio Caproni: l’inadeguatezza del linguaggio a raccontare la realtà e, quindi, l’insanabile inanità della poesia fatta di parole, le quali non riescono comunque mai a fare il conto esatto dei valori della vita, che restano indicibili. De Rosa cita la poesia Concessione in cui il poeta di Fontanigorda dice “Buttate pure via / ogni opera in versi o in prosa. / Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa”. C’è in De Rosa lo stesso travaglio di impotenza e di ambiguità per il linguaggio della poesia, che, anche se perfetto e curatissimo nella forma – così com’è in Caproni e altrettanto lo è in De Rosa – non riesce comunque a penetrare nella realtà e a rappresentarla pienamente nella sua valenza plurale ed enigmatica. Così la triplice declinazione della rosa bianca, rosa rosa e rosa rossa – le tre poesie stanno rispettivamente a indicare l’algida bellezza della natura, l’estasi lirica della solitudine e infine il dolce calore dell’eros –cade come Icaro in un precipizio di impotenza, tanto più drammatico per chi con la poesia ha creduto di indossare le ali degli angeli e avvicinarsi fino alla sorgente della vita: “E se l’uomo non può conoscere e capire / l’essenza di una piccola cosa / vivente, precaria, / come può capire la Vita, / o, addirittura, il Dio che sembra assente?” L’immanenza dell’assenza di Dio è altresì un tema che già fu molto caro a Giorgio Caproni, il quale di Dio sosteneva di riuscire a patire fino in fondo il grande peso della assenza, che è una cosa molto diversa dal professarsi ateo. Si avvicina invece alla condizione dell’orfano, che lamenta la perdita della genitrice. Condizione quest’ultima che è svolta – forse anche in chiave di metafora di una dissolvenza del mito divino della Grande Madre – da Luigi De Rosa, il quale descrive splendidamente la sua condizione di “bimbo senza mamma”. Una situazione che ha profondamente segnato dapprima la sensibilità del fanciullo e successivamente la formazione intellettuale dello scrittore maturo, come leggiamo nella poesia Occhiali neri da sole, di cui appare drammatica la conclusione ove è descritto il momento dello stacco: “Mi rivedo bambino spaurito – / tenuto nervosamente per mano / da mio padre – / offuscare di lacrime, in silenzio, / i miei occhiali da sole soffocanti, / mentre mia madre si allontana / per sempre”. È una metafora palmare, quasi apodittica, quella della poesia rappresentata dagli “occhiali da sole soffocanti”, mentre il bimbo diviene il proto-orfano, e perde la madre che è l’origine della Vita, ecco che quasi riceve in eredità dal padre, che lo tiene per mano, il dono del linguaggio poetico – le piramidi dei libri, totalmente inutili – cioè il fascino colorato delle magnifiche parole con cui osservare il mondo come attraverso le lenti seducenti che edulcorano la visione con artificio e che nascondono al prossimo le nostre lacrime, il nostro irredimibile dolore per la condizione incurabile di orfani del vero che ci possiede. Sandro Gros-Pietro |
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