Labirinto verbale
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Prefazione Il discorso poetico di Luciano Calzavara si presenta non già nei modi dell’elegia lirica o della visione trasognante del mondo reale, ma invece come argomentazione inquisitoria, anche come progetto di superfetazione del conoscibile, tuttavia senza elaborare una weltanschauung, ma una semplice catena di appunti ovvero di chiose a margine, volta a volta baluginanti dall’intreccio del testo, e recanti la possibilità di intravedere una nuova logica, profonda e radicale, tale da apparire totalmente diversa dalle consuetudinarie misure e dalle usurate metafore con cui il poeta tradizionale riconosce e canta le forme deputate della bellezza e della verità. Siamo decisamente sul fronte della “poesia della mente” e non certo su quello della “poesia del cuore”, ancorché non si tratti di un “pensiero poetante” come lo hanno illustrato i grandi maestri del recente passato, da Leopardi a Nietzsche, perché Calzavara non elabora un’indagine sistemica, e quindi non legge, per dirla con il Recanatese, degli amarissimi casi l’ordine immenso. Egli, invece, come il titolo del libro ci lascia intendere, preferisce il labirinto, che è sostanzialmente un gioco e una trappola, ma che è anche una prova di disperata intelligenza e di accanita resistenza. Sono proprio questi i due pigmenti di base – l’intelligenza e la resistenza – che caratterizzano la coloratissima ambientazione noetica del laborintus calzavariano. Il richiamo al Laborintus di Edoardo Sanguineti non è mai evidenziato, così come a sua volta non c’è un legame diretto con la “complicanza” del laborintus elaborato da Everardus Alemannus. A differenza degli esempi citati, infatti, Calzavara non assedia il discorso poetico con l’erudizione filologica, che anzi rimane strategicamente fuori campo, ma che rappresenta tuttavia la forza gravitazionale di questo linguaggio poetico, così raffinato, aggrovigliato, e ricco di infiniti agganci, possibilità, prospettive, contraddizioni e turbamenti, come debbono essere, in fondo, tutti i “giochi” labirintici. L’idea del “ludus” è sempre cogente nell’opera creativa di Calzavara soprattutto in ambito della prosa e anche, come ora vediamo, della poesia. In Levia Gravia scrive Carducci d’amor tra i ludi e le tenzon civili / crebbi, dove per impegno civile non dobbiamo intendere solo l’aspetto patriottico della scrittura del Vate di Pietrasanta, ma più in generale l’amore per la cultura e per la lettura, sovente coniugato con l’attrazione per i “ludi”, che non consistono solo nel fare bisboccia fra amici, ma che sono prima di tutto rappresentati dalle libere divagazioni della mente e dall’inclinazione a una visione gioiosa della vita. In Calzavara è sempre riconoscibile una predilezione marcata per la satira e anche per l’autoironia, che potrà spingersi fino alle manifestazioni più graffianti o amare sconfinanti in autentico sarcasmo. L’impostazione ironica del pensiero può essere assunta come la griffe sempre riconoscibile della scrittura di Calzavara e consiste sostanzialmente in un discostamento dubitativo e prudenziale rispetto alle affermazioni apodittiche, che già prospettano in sé stesse la gioiosità quasi comica di un loro successivo sgretolamento fragoroso. Sandro Gros-Pietro |
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