Porta delle Alpi
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Prefazione Il lettore che accede a questo libro trova ad attenderlo 128 poesie, composte dal 2008 ad oggi. Sono liriche dal verso libero, la cui misura va dal frammento di sapore epigrammatico o haiku fino al poema. Propongono parole che attingono a registri linguistici diseguali, quello scientifico come quello letterario, quello quotidiano come quello arcaico. Includono suoni studiati, talora esaltati da rime baciate e assonanze, allitterazioni e onomatopee. Vantano frasi costruite con modi brevi e immediati, ma anche pianamente discorsivi o addirittura – quando è necessario – contorti, accentuati se il caso da enjambements e chiasmi. Adottano uno stile comunicativo colloquiale, in qualche circostanza apertamente dialogico, che non disdegna quelle ripetizioni di formule espressive tipiche dell’oralità. * * * L’Autore coltiva un’idea di poesia che si radica nella concezione goethiana dell’arte, secondo cui quest’ultima risulta da un procedimento istantaneo e intuitivo, contraddistinto dall’unità fra particolare e universale, fra dettaglio e idea, fra percezione e significato, che ha come fulcro il simbolo, teso all’inesprimibile. Con Friedrich Schlegel, pensa ad un percorso magico che, riscoprendo il linguaggio originario – entità pura e assoluta –, riesce a superare la scissione tra Io e Natura. Attento alla lezione di Gilles Deleuze, egli rivisita il proprio vissuto dipartendolo da sé per renderlo davvero compartecipabile. Ma è a Owen Barfield che deve l’apporto maggiore, ritenendo la poesia un contributo effettivo alla conoscenza della Verità, di cui il lettore si beneficia in termini di comprensione del reale e di saggezza del vivere. * * * Protagonista di questo libro è l’uomo contemporaneo, che patisce l’angosciosa disgregazione dell’esistenza. Egli è immerso in una cultura nichilista che mercifica e massifica, che contrappone diritto e giustizia, che distrugge gli ecosistemi e divora i suoli, che è dominata da un principio d’identità che differenzia ogni individuo dai suoi consimili e dal resto del mondo, che non riconosce alla vita senso, scopo e valore intrinseco, che afferma che la morale non esiste di per sé rendendo così incomprensibile la Verità. Ad apertura della raccolta è posta non a caso l’apostrofe Al lettore. * * * All’uomo contemporaneo, pur stritolato da un nichilismo che nella sua intellegibilità è del tutto chiuso, l’autore vuole indicare un percorso di liberazione. Un buon punto di partenza per comprendere tale progetto può essere l’affermazione di Mircea Eliade, secondo cui “Quel che l’uomo […] ha inteso dall’esempio dei semi, che perdono la loro forma sottoterra, […] rappresenta la lezione decisiva”. È infatti dall’osservazione del processo di morte e rinascita in natura che l’umanità è giunta alla consapevolezza di un principio e di una fine a cui segue un nuovo inizio. Ed è a partire dal ciclo agrario, che lega indissolubilmente la sopravvivenza dell’uomo alla terra, che si forma il senso del tempo ciclico. * * * Accogliendo l’elaborazione di Eugenio Turri, nella poesia lo Spazio diventa sintesi di Natura e cultura, risultato di processi storici, specchio in cui si riflettono e si misurano il vivere e l’agire dell’uomo, il suo operare e il suo incessante rinnovarsi. È paesaggio vivente, sommatoria e combinazione dell’evoluzione degli elementi visivi che dialetticamente concorrono a raffigurarlo. La percezione di un luogo viene così rappresentata attraverso ciò che impressiona per evidenza, bellezza, grandiosità, singolarità, o magari perché si ripete, tipico e inconfondibile, e la decifrazione del paesaggio dipende dalla ricchezza dei saperi di chi lo osserva e dalla sua capacità di leggervi il significato del territorio. * * * Allo stesso modo, il Tempo è visto nella poesia diversamente da ciò che, secondo Emanuele Severino, “Il pensiero greco ha pensato per primo, una volta per tutte, e che come tecnica domina ormai incontrastato su tutta la Terra. Tanto più incontrastato quanto più inesplorato nel suo senso autentico.” In linea con Ernst Jünger, l’andamento circolare del tempo è allora inteso come ritorno dell’eternità, capace di smentire l’unidirezionalità del progresso e di attribuire i mutamenti della Storia alla ricomparsa di archetipi irradiati da un trascendente, indistinto Principio. Un Tempo, quello della poesia, che non è più l’odiato fantasma definito da Eugenio Montale che bisogna riempire di occupazioni per allontanare da sé un vertiginoso senso di vuoto, ma che al contrario si configura come ritorno – reso possibile dall’ascesi filosofica – allo stato e all’unità delle origini. * * * La Porta che dà il titolo alla raccolta rappresenta un varco, che l’autore ha attraversato e che propone al lettore di attraversare a sua volta. Ma cosa attende il lettore al di là di quella Porta? Secondo l’autore, una Partecipazione opposta a quella configurata dalla cultura nichilista, che è di carattere puramente quantitativo, che impone a ciascuno di noi di impossessarsi di una parte del tutto escludendo automaticamente ogni altro dal godimento di quella stessa parte. * * * Oltre la Porta, la Partecipazione si giustifica con quell’Anima mundi che James Hillman concepisce riprendendo i Neoplatonici. Secondo Plotino, la vita nasce infatti dall’anima, principio interiore, semplice e immateriale, e la molteplicità di anime presenti nel mondo è comprensibile solo ammettendo che tutte abbiano un’origine comune. Ecco allora che Hillman scrive: “Immaginiamo l’Anima mundi come quella particolare scintilla d’anima, quell’immagine seminale, che si offre attraverso ogni singola cosa nella sua forma visibile.” * * * A far da sfondo alle prospettive di una nuova Partecipazione interviene d’altronde la critica radicale dell’Ecologia tradizionale, ancorata a una visione antropocentrica e incline a considerare la nostra specie come “altra” rispetto alla Natura. Valgono in tale senso le parole di Fritjof Capra: “Il potere del pensiero astratto ci ha condotto a considerare l’ambiente naturale – la trama della vita – come se consistesse di parti separate, che diversi gruppi di interesse possono sfruttare. Inoltre, abbiamo esteso questa visione frammentata alla società umana, dividendola in differenti nazioni, razze, gruppi politici e religiosi. Il fatto di credere che tutte queste parti – in noi stessi, nel nostro ambiente e nella nostra società – siano realmente separate ci ha alienato dalla Natura e dai nostri simili.” * * * Più volte, ma tutto svolto sul piano della perplessità critica, si affaccia il tema della crescita economica a tutti i costi, mito a volte delirante, sintomo di una nuova religione laica. L’animalità selvatica, in questo caso i gracchi imperiali, osserva tutto ciò con senso di sbigottimento, come dall’alto di una maggiore consapevolezza: “Appesi o tesi nell’aria / folli con occhi sbigottiti / docili ancora del verde e del blu, / ma come spiegare / questo nostro volere a strappi e sempre di più?” (Giostra degli imperiali). È un grido di smarrimento quello che sale dai versi “Cos’altro si prospetta nelle città senza fine / e ibridamente si progetta / nell’omogeneizzante disidentificante spazio?” (Vivificante OM). E dello stesso tenore, ma raccolti in un afflato lirico, sono i versi “Ogni anima non avrà cuore / interminato ci travolgerà questo furore” (L’exemplum dei semi). Dell’insensato mito della crescita si giunge infine a svelare l’antropocentrismo di fondo: “Oggettivamente in verità / non possiamo andare avanti / procedere così all’infinito / dare, con la gruccia dell’orgoglio, / la scalata al cielo” (Scalata al cielo). * * * Di fronte allo scempio non si può rimanere del tutto passivi, prigionieri dell’indifferenza. Un atto d’amore diventa necessario per evitare che la pulsione di morte deflagri sui luoghi di gloria e di idillio, gli stessi che la poesia tenta disperatamente di salvare. Pier Paolo Pasolini lo afferma in “Saluto e augurio”, un componimento contenuto in Nuova gioventù. Da tale testo rivelatore sono tratte le citazioni impiegate con particolare spicco in Convergente armonia e segnalate dalle virgolette basse: “«difendi i paletti di gelso, di ontano, / in nome degli Dei, greci o cinesi»”, così come “«muori di amore per le vigne. / Per i fichi negli orti. / i ceppi, gli stecchi…»”. E ancora: “«Difendi i campi tra il paese e la campagna, / con le loro pannocchie abbandonate. / Difendi il prato», «Difendi, conserva, prega!»” * * * Una sezione del libro è dedicata al tema delle rovine, perlopiù casematte usate dai militari nelle due guerre mondiali, stalle e baite di ricovero usate un tempo lontano dai pastori, ormai frante e vinte dalla potenza degli elementi. Il fascino che esse irradiano consiste tanto nel fatto che un’opera dell’uomo possa esser percepita come un prodotto della natura, quanto nella vista della vegetazione capace di ricoprire quelle vecchie rovine dove le marmotte vi scavano le loro intricate tane. Le rovine sono qui considerate come una sorta di immagine dialettica: da una parte sono una ammonizione di ciò che la surmodernità (Mar Augé) ci potrebbe riservare: ovvero la perdita, la distruzione; dall’altra sono stimolo alla ricostruzione, volontà di reazione, alimento vitale per una nuova creazione. “Non toccate quelle rovine / prima che le marmotte vi s’annidino scivolando nell’oscurità / raggomitolate in un angolo dimenticato dal mondo / non toccate quelle rovine“ (Non toccate quelle rovine). * * * Dopo la lettura di una raccolta poetica di Winfried Georg Sebald, intitolata Secondo natura: un poema degli elementi, l’autore ha sentito il bisogno di scrivere l’ultima sezione del libro, dedicandola alla figura di un eretico valdese, Giovanni Sensi. Utilizzando i verbali del processo inquisitoriale, scoperti dall’autore stesso presso l’Archivio di Corte di Torino, vi si raccontano gli ultimi giorni dell’eretico prima della condanna al rogo, con riferimenti ai luoghi più belli e significativi della valle di Susa: l’Ospizio dei pellegrini al Moncenisio, la Cappella di sant’Eldrado a Novalesa, la Precettoria di sant’Antonio di Ranverso e la Sacra di san Michele, di cui viene ripreso il racconto leggendario della fondazione. Il testo alterna uno stile che mima la prosa a momenti decisamente lirici ed evocativi. L’eretico valdese appare come colui che ha saputo muovere una sfida al pensiero unico e dogmatico, rischiosa realtà sempre operante nella Storia. Ma anche come colui che, morendo, vuole congiungersi con il tutto, ricomporre l’armonia con il creato. “Eppure non è ancora sera, / ma nel cielo non vi sarà stella che brilli, / viaggio eterno di cometa / luna che spanda candido raggio […] / E allora mi alzo, dispiego le ali / e volo alto a provare una nuova appartenenza / attendetemi dolci elementi, sarò sempre con voi” (Giovanni Sensi XI). Marco Sguayzer |
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