Cercando amore

AVVERTENZA

Il volume rappresenta la più ampia e ragionata pubblicazione finora apparsa sulla poesia di Livia Naccarato. La poetessa ha per ora scritto sette libri di poesia. In ogni libro, la scrittrice ha sempre inteso riprendere almeno in parte le poesie già apparse in quello precedente, come se volesse alludere a un filo ininterrotto e sempre ripreso del suo continuativo percorso poetico. Tutti i volumi sono sempre apparsi corredati da un eccellente contributo critico di presentazione e di commento. Nel portare alla luce la presente antologia, si è inteso rispettare lo sviluppo per fasi che la scrittrice ha dato alla propria poesia, riproponendo la serie dei libri in successione, così come era stata concepita all’origine, e aggiungendo gli identici apparati critici che videro la luce nei singoli libri e che risultano tuttora preziosi ai fini del significato interpretativo della poetica di Naccarato. Da ogni libro, tuttavia, sono state tolti i testi già pubblicati nei libri precedenti, per cui non esistono ripetizioni concepite all’origine e, apparentemente, viene a mancare quell’effetto di sovrapposizione del filo rosso conduttore. Inoltre, specie nei primi due libri, sono state fatte delle scelte antologiche che hanno condotto all’esclusione di alcune poesie, non apparse scritte all’interno dei filoni fondamentali successivamente sempre ripresi dalla scrittrice e, quindi, giudicate in termine di minore significatività da parte del curatore.
Si ringraziano gli editori e i critici che hanno permesso la riproduzione dei loro lavori.

PREFAZIONE

Livia Naccarato rappresenta una delle voci più significative della poesia contemporanea. L’eccellenza le deriva sia dalla vastità della produzione sia dalla durata negli anni. Per entrare nella sua poesia è opportuno fare una premessa e rifarsi a un autore che appare come un classico della modernità, Carlo Michelstaedter. Per il poeta e filosofo di Gorizia, momento centrale della conoscenza è la distinzione oppositiva tra rettorica e persuasione. La prima è l’inganno della mente, una lusinga e un tentativo di continua fuga dall’amarezza di dovere riconoscere il tragico dell’esistenza destinata a dissolversi come vapore nel nulla. La seconda, la persuasione, è l’azione di coscienza e di riconoscimento dell’io soggetto nella finitezza effimera dell’attimo presente, nel tempo inconsistente che è l’attualità. Alla base di questa concezione c’è la visione solipsistica dell’esistenza: la convinzione che solo il singolo individuo possa elaborare una teoria di comprensione del mondo reale, quella sorta di energheia, cioè di energia, che è la forza che muove le cose. Senza ingaggiare un’analisi filosofica, che sarebbe fuorviante, il richiamo a Michelstaedter è utile per mettere a fuoco il motore centrale del discorso poetico di Naccarato, che è radicato sul concetto di soggettività: l’uomo, ogni singolo uomo, possiede dentro di sé la forma della bellezza del mondo, che può fare emergere alla luce e manifestare a se stesso e agli altri attraverso una progressiva e approfondente operazione di conquista e di appropriazione – di persuasione, precisamente – dell’anima profonda del mondo, quella che egli stesso si è persuaso che sia. Se questo discorso venisse sviluppato filosoficamente, con ogni probabilità ci condurrebbe – come in realtà ha condotto l’estetica moderna – all’innominabilità del reale, all’indefinibilità degli oggetti, all’incomunicabilità del pensiero e all’indescrivibilità delle cose, ma non è per questi eccessi che procede lo sviluppo poetico del mondo di Naccarato. Naccarato, chiarito che al centro del mondo si pone il soggetto come fonte e come forma dell’esperienza umana, ne cerca subito l’attributo e si proietta al di fuori dell’individuo stesso, verso il mondo e cioè verso gli altri. Questa operazione di proiezione di sé verso l’esterno, per Livia Naccarato, è l’atto d’amore, cioè l’eros, che non è ragionamento, ma è emozione, sentimento, utopia e fede; forse, è un dono. Insomma, l’eros è l’espressione analogica della poesia, che non si serve più delle concatenazioni della logica per esprimersi, ma che si proietta all’esterno del soggetto poeta come emozione esplorativa e conoscitiva, intenso momento effimero e attuale di conoscenza dell’enigmaticità del mondo reale.
Il primo teorema fondamentale della poetica di Livia consiste, dunque, nell’assumere l’individuo come forma del mondo e, subito dopo, nello svolgere le due fasi fondamentali dell’attività della conoscenza umana, in chiave poetica: primo, lo studio approfondente dell’individuo, delle sue origini, radici, discendenze, derivazioni culturali ed emotive; secondo, esercitare il dono di sé fuori da sé, attraverso lo sviluppo dell’eros, nelle sue due componenti possibili, e cioè sia con l’amore verso l’amato – persona umana in carne e ossa, bene individuata – sia con l’amore verso il prossimo, rivolto a tutti gli uomini della Terra di ogni tempo e di ogni paese che appaiano agli occhi della poetessa degni di essere amati. La poetica del soggetto in Naccarato sviluppa, dunque, questi due versanti fondamentali: quello dell’interiorità, e quello dell’esteriorità. La poetica dell’interiorità fa riferimento alla ricerca delle radici del soggetto e si sviluppa con una serie di tematiche bene differenziate: le radici familiari, l’amore verso la propria terra, il sentimento panico di appartenenza al creato, la ricostruzione storica dei fondamenti della propria cultura, l’educazione al linguaggio poetico. Tutti questi temi, sviluppati e approfonditi con tenacia e continuità nel corso di quasi un trentennio di pubblicazioni, rappresentano il mondo delle idee della poetessa. È un universo alimentato con intensità di luce e colori. Questi ultimi – i colori – diffusi con vocazione espressionista nel testo, giungono quasi a essere elementi simbolici e antropomorfi della poesia, in sinestesia con la pittura. C’è la ricchezza di evocazioni precise, di luoghi e di persone, in un raffinato filo rosso di collegamento e dispersione di tracce di vita autentica e di contemplazione del reale, specie del mondo della natura, osservata e fino sorvegliata nelle sue fasi stagionali di ritorni e riproposte, per caducità e per resistenze, per simboli e per metafore, con ricostruzioni vagamente oniriche che sovente si rivelano per essere schermi simbolici sui quali si proietta un discorso alluso, più fondo e misterioso, quello dell’inafferrabilità o addirittura dell’inanità della vita.
Si è detto che Naccarato, divenuta romana per adozione e per impegni di insegnamento, è nata in una delle penisole più belle della Terra per splendori paesaggistici, principalmente rivieraschi, e per antichità di testimonianze storiche: la Calabria, che solca i due mari, di babordo e di tribordo, come fosse immenso bastimento, carico di storia e di uomini, di piante e di animali, inoltrata nel viaggio cosmico di attraversamento dell’esistenza. Ma nella ricostruzione poetica che ne fa Naccarato, irrinunciabilmente legata alle sue origini, la Calabria è valorizzata principalmente per la sua antichissima anima contadina, per il lavoro dei campi, la raccolta delle messi, le tradizioni di festa e di riunione delle genti. Attraverso le figure genitoriali, Naccarato ricostruisce non solo la profondità e la dolcezza dei legami familiari, ma giunge a rappresentare il significato simbolico della storia umana, l’importanza dei lasciti di cultura e la trasmissione della sapienza del fare e del pensare alle generazioni che seguono. Più di ogni apprezzamento e al di sopra di ogni altra considerazione, specie nella figura della madre, donna di scuola ma anche operosa lavoratrice domestica, Naccarato ricostruisce il significato profondo dello smarrimento dell’uomo davanti alla gratuità del dolore e all’olocausto dei più deboli che continuamente la storia dell’umanità riproduce a ogni generazione, infernale macchina di violenza e di follia. La mamma della poetessa, figura incombente che illumina tutta l’opera, dai libri degli esordi alle poesie di più recente attualità, è schermo dell’antichissimo simbolo della Grande Madre meditterranea, entità sacrale depositaria del miracolo della vita e della fertilità, anima pia e commossa che vibra di felicità per lo sviluppo di ogni germoglio di fiore e per la crescita gioiosa di ogni fanciullo. Ma è anche la depositaria fedele e severa delle regole che compongono il catechismo domestico della convivenza sociale. In fondo, è proprio la madre lo scrigno del diritto e della legge, il supremo usbergo della civiltà umana. Là dove il padre, invece, è simbolo racchiuso in quelle tali scarpe grosse, icona immarcescibile di fatica e di sudore, che si impiega allo stremo, ma non senza occasioni di gioiosità ridente, nel procedere lungo un solco predestinato il cui disegno architettonico non sembra appartenergli totalmente. La ricchezza simbolica e metaforica delle due figure genitoriali basterebbe da sola ad attribuire una posizione di assoluta primazia della poetessa all’interno del panorama poetico calabrese.
Il viaggio all’interno di se stessa conduce la poetessa non solo a simboleggiare metaforicamente le origini del mondo con le origini del proprio io-soggetto e a deificare le figure genitoriali quasi fossero la nozione liquida di una eternità indefinitamente preesistente al tempo attuale, ma conduce anche a definire le forme del linguaggio poetico che diviene un ibrido personalizzato e soggettivo di stile alto o tragico, in miscellanea con lo stile basso della commedia. Per esattezza, diremo che l’atmosfera e gli argomenti della poetica di Naccarato appartengono alla grande tradizione classica, mentre le forme espressive, così orientate a soluzioni scarne ed efficaci, demandano allo stile basso della commedia, tipica del dire quotidiano e schietto, di impostazione popolare, sferzante nell’obbiettivo immediato di raggiungere la pienezza della comunicazione con il massimo risparmio di segnali semantici. Ne deriva un caratteristico iato tra la portata solenne delle argomentazioni e la stringatezza icastica delle soluzioni che costringono la complessità dell’impianto di pensiero nella linearità epigrafica della loro formulazione, con un esito antifrastico che illumina la pagina in modo mirabile, e che fa pensare a un’ironia lontana e molto sofferta; a una consapevolezza arresa della poetessa di fronte alle sproporzioni del discorso che andrebbe affrontato, come di chi si collocasse all’origine stessa dei problemi e ne documentasse l’impossibilità di essere anche soltanto argomentati in tutta la loro supponente e, forse, vana vastità. Ma il linguaggio poetico, inventato da Naccarato, è mirabile anche per la meditazione con cui il lessico è stato scelto e selezionato, tale da impastare insieme, in modo del tutto convincente, vocaboli preziosi e talvolta aulici con forme tratte dal parlato, addirittura di impiego dialettale, subito avvicinate con efficacia ad altre espressioni che invece appartengono alla tradizione dotta della lingua dei poeti. Ne deriva un linguaggio ricco di echi e di orizzonti che si aprono continuamente su ampi paesaggi della tradizione o che demandano a oscure forme del dire popolare di cui si può godere l’intensa autenticità che trasmettono. È un linguaggio che crea con immediatezza quella sensazione di ariosità atemporale che sempre deve possedere la buona poesia, come fosse un discorso proveniente da una nozione trasversale rispetto al tempo cui appartiene.
Il mondo interiore della poetessa è una rete intricata di connessioni che riguardano, sullo stesso piano iterativamente ripetuto e interagente, la storia della famiglia e la storia della terra cui la poetessa si sente di appartenere con uno solo marchio identificativo. A questo si aggiungono le espressioni linguistiche della sua famiglia, che sono collegate a quelle della sua gente e che sono collegate anche a quelle della sua letteratura, in uno sfuso di secoli che parte dai primordi della letteratura classica e che arriva alla modernità dei contemporanei. Si tratta di uno stesso e unico amalgama di linguaggio e di situazioni di vita, elaborato dalla poetessa che si muove nella rete fitta del suo mondo interiore, dove la storia di Didone ed Enea diviene facilmente quella di Paolo e Francesca, e diviene quella di due giovani compaesani, in una comunanza trasversale di destini rinnovati nel “ritorno di ogni stagione”, in un sempre uguale e sempre nuovo, che ricalca i cicli della natura. La natura, alla fine, è l’elemento unificante di tutto il mondo interiore della poetessa, che ha un’anima poetica sostanzialmente leopardiana, così incline a individuare nella dialettica di amore e morte le due espressioni di bellezza più significative della vita e così irrimediabilmente affascinata dalle fasi lunari e dalle metamorfosi propiziatorie dell’astro celeste a noi più vicino. Come già per il Recanatese, la natura di Naccarato possiede delle valenze antropomorfe nel senso che diviene sovente simbolo del destino degli uomini o della loro complessione. Non si tratterà di un passero o di una ginestra, ma più probabilmente saranno i colori e i fiori della natura ad esprimere gli stati d’animo e le emozioni della poetessa, nonché a divenire schermo possibile di metafora. Tuttavia, a differenza di Giacomo, per Livia la natura non sviluppa alcuna malignità avversa all’uomo, ma semplicemente compie il suo mestiere di consumare e rinnovare le stagioni e, pertanto, anche consuma e rinnova la vita degli uomini.
Oltre al tema della natura, Naccarato condivide un’attrazione in comune con la poetica di Leopardi anche sul versante della ricerca gnoseologica e più in generale sul contenuto filosofico che deve assumere la ricerca del poeta. Il poeta non può limitarsi a essere un edonista che esaurisca la sua arte in una ricerca del bello fine a se stesso, sia pure nello splendore delle forme del linguaggio e nel fascino delle idee astratte elaborate dalla mente. Compito fondamentale del poeta è quello di farsi carico di asseverare la conoscenza umana del mondo e della vita. Tocca al poeta valutare il peso e gli orientamenti della conoscenza. In altre parole, il poeta deve chiedersi a cosa serva la conoscenza, la scienza in generale e in particolare la filosofia. Come si è detto, è questo un tema centrale nella poetica di Leopardi, da lui affrontato e drammaticamente risolto nel libro capolavoro delle Operette morali, con uno stile amaramente ironico e tragicamente gioioso. Nel caso della Naccarato il dilemma centrale assume un’espressione quasi shakespeariana e si pone nei termini dell’essere o non essere, non tanto come scelta tra l’affermazione in positivo della vita contrapponibile alla rinuncia totale alla vita, ma piuttosto come individuazione dei labili confini frapposti tra ciò che è e ciò che non è. La Naccarato si chiede se la conoscenza che noi abbiamo della realtà sia una elaborazione mentale prodotta dalla nostra cultura ovvero se ciò che noi conosciamo realmente esista al mondo come oggetto vero e reale. Quello di Naccarato è, se vogliamo, un discorso intorno al noumeno kantiano, ma in lei assume il tono drammatico dell’angoscia, e consiste nel fatto che il poeta matura la consapevolezza che la sua ricerca di sapienza è prigioniera del concetto di sapienza da lui stesso costruito. Il poeta non riesce mai a vedere al di là del suo linguaggio, da lui stesso architettato, espressione di scienza e di filosofia umana. Resta il dubbio, che si trasforma in angoscia irrisolvibile, di sapere se c’è una corrispondenza della realtà rispetto all’idea che noi abbiamo elaborato della realtà stessa. Questa incapacità di risolvere il dubbio – che potrebbe trovare soluzione unicamente in un atto di fede religiosa – crea nella poetessa l’inclinazione a un pessimismo irrisolvibile, che non sfocia apertamente nella disperazione degli esistenzialisti, ma che diviene la lucida rassegnazione al dubbio e all’anfibologia della verità.
Abbiamo già detto che il dono di sé della poetessa verso il mondo esterno – ciò che abbiamo definito l’eros – si manifesta in due forme ideali. La prima è quella ispirata a contenuti civili e politici, e nasce dall’amore verso l’umanità che soffre. È un ideale che origina da una deriva classica e giustinianea, cioè dalla cultura giurisprudenziale della verità, che deve coincidere con la luce del diritto. Nello splendore classico del pensiero giustinianeo, la legge doveva riverberare la verità dei fatti, dei rapporti fra le cose e gli uomini, per cui il trionfo della giustizia coincideva automaticamente con il trionfo della verità. Per tornare a citare Michelstaedter, diciamo che nei secoli si è fatta molta retorica su questo assunto: si sono elaborati molti inganni della mente relativa all’equivalenza tra giustizia e verità. Fino a che, per semplificare le cose, non si giunge con Carlo Marx a impostare il discorso della giustizia umana in termini di conflittualità irrisolvibile fra le classi sociali e si prefigura l’utopia comunista come unica possibilità di superamento della lotta di classe e come raggiungimento di un vivere civilmente perfezionato, in cui ciascuno riceve secondo bisogno e dona al prossimo secondo possibilità, per cui verità e giustizia tornano a coincidere, al di fuori di ogni spinta faziosa. Si sa quanto l’utopia comunista sia vicina, come concezione civile definitiva, all’ideale della vita cristiana, benché l’ideologia comunista abbia sempre definito ogni religione in termini di oppio dei popoli, cioè come se fosse una retorica particolarmente ingannevole – tanto per richiamare ancora una volta il citato filosofo e poeta goriziano. La Naccarato abbraccia con impeto l’ideale comunista: ella vive in termini di sogno shakespeariano, cioè di un fantasma che appare distintamente agli occhi e alla mente di Amleto, l’utopia comunista che in lei si veste di contenuti e di notizie del mondo reale, fino al punto di apparire – il comunismo e i suoi ideali di giustizia e di uguaglianza – come una presenza già viva e operante nel mondo, avvicinabile e sperimentabile. Questo è il grande dono di sé che compie la poetessa nei confronti del mondo: vivere il suo ideale utopico come sole dell’avvenire che ha già cominciato a splendere e che presto risuonerà, nelle note dell’Internazionale, in ogni valle e per ogni campagna. Va detto che la poetessa è più che consapevole che si tratta pure sempre di un’utopia, cioè che si tratta della proiezione lontana di una speranza che le è vicina, quanto meno nel cuore. Ma esattamente questo carattere di quasi impossibilità di realizzazione rende il dono di se stessa a tale causa ancora più nobile e più poetico. Infatti, non vi è nulla di poetico a sognare l’ovvietà dei fatti e la facilità apodittica delle verità scontate. Il grado di nobiltà dei sogni sta proprio nell’improponibilità del desiderio o della speranza che essi racchiudono in sé, fino a concepire il volo di Icaro come massima espressione del sogno poetico, quello di raggiungere la condizione di perfezione celeste, e non rinunciare a concepire il volo benché appaia del tutto inattuabile. Al di là del discorso politico – la Naccarato non è certo un’agitatrice di folle e neppure un funzionario di partito – ciò che preme alla poetessa è fornire l’exemplum del dono di sé da effettuare a favore di un ideale superiore di giustizia, verità e progresso sociale: questa è una materia che interessa profondamente ogni poeta, perché non si tratta solo di un ideale politico, ma si tratta prima di tutto di un’espressione d’amore verso il prossimo. Non sorprenderà, allora, constatare come un’intellettuale sostanzialmente di formazione ateo-agnostica come è la Naccarato dedichi tanta parte di attenzione ai valori del cristianesimo e in particolare alla figura di Francesco d’Assisi. La ragione sta nel fatto che, prima ancora di essere maestro di sapienza, Gesù ci appare come maestro d’amore e questo fatto non può lasciare indifferente l’animo di alcun poeta.
La Naccarato è sostanzialmente una poetessa dell’amore. Lo è in modo predominante e suasivo, con armonia e dolcezza delle forme e delle soluzioni di stile, sempre rivolte a ricreare un’atmosfera sospesa tra il sogno e l’idillio, ma che talvolta può anche elettrizzarsi nel confronto drammatico delle tensioni di intesa o di fraintendimento tra i due amanti. La Naccarato è poetessa dell’amore con una forza ancestrale che prescinde da ogni puntiglio di determinazione di tempo e di luogo, ma al contrario la sua poesia esprime l’universalità di contenuti tipica della grande tradizione classica, di Saffo, Alceo, Anacreonte e quindi di Orazio, Virgilio, Ovidio, Catullo e Properzio. La Naccarato è poetessa dell’amore al femminile, cioè quello coltivato come fuoco dell’anima e della carne, alimentato da una donna verso il suo uomo, nel caso specifico da Livia verso Bruno, che sono entrambi e forse non a caso due nomi di prepotente derivazione classica e latina. In questo amore di donna verso il suo uomo c’è sicuramente anche una specifica memoria italiana rinascimentale, che risale alla focosa passione di Gaspara Stampa per il suo Collaltino di Collalto e alle conseguenti rime petrarchesche che ella dedicò alla sua fugace passione. L’elemento di comunione tra i due esempi di amore femminile verso l’uomo sta nello scrigno di palpitante umanità e autenticità che i due uomini rappresentano agli occhi delle rispettive poetesse, da cui sono stati amati. Infatti, sia Gaspara sia Livia amano rispettivamente Collaltino e Bruno non come schermi di rielaborazione letteraria e retorica del significato dell’amore, ma come autentiche creature umane, nella loro fragile ed effimera pellicola biologica di persone uniche e irripetibili nella storia del mondo, destinati a perdersi in un soffio di vento, ma per sempre salvati nell’ambra perfetta della poesia. Ma, per altri versi, nella poesia d’amore di Naccarato vi è anche la traccia, sempre petrarchesca, dell’amore di Vittoria Colonna per il suo consorte morto per ferite di guerra, il nobile Francesco Ferrante d’Avalos. In questo caso la comunanza tra le due poetesse, Vittoria e Livia, consiste nel fatto che per entrambe si tratta di una poesia epicediale, concepita come celebrazione ed evocazione del sentimento rivolto alla memoria dell’uomo amato, la cui perdita causa a entrambe le poetesse un lutto inconsolabile. Con la differenza che Vittoria celebra epicamente le virtù gloriose del marito, esempio fulgido di valore e di virilità, condottiero coraggioso e sposo ardente, come si conviene che sia l’immagine esemplare di un uomo rappresentativo del rinascimento italiano. Livia, invece, ama teneramente del suo Bruno il febbrile disagio di uomo dolce e sensibile, condannato a vivere in un secolo in cui contano i valori materiali dell’accumulazione forsennata in capitali finanziari e non contano più i valori spirituali della personalità individuale; un uomo che appare amabile agli occhi della poetessa proprio perché è consapevole del suo disagio di intellettuale all’interno di una civiltà che va sempre più imbarbarendosi in un processo di mercificazione alienante delle virtù umane, come si conviene che sia l’amore di una poetessa nel ventesimo (e ventunesimo) secolo della nostra civiltà. La Naccarato come poetessa dell’amore rinnova la tradizione italiana di lirismo amoroso al femminile che già si era felicemente imposta al Viareggio del 1947 con Selva d’amore di Sibilla Aleramo, con la differenza che al lirismo ardente della scrittrice amata da Dino Campana, Livia Naccarato sostituisce una poesia del colloquio interiore e del dialogo immaginario con l’amato morto, rinnovando e più di tutto aprendo in Italia una sponda di letteratura corrispondente a quella tale “poesia confessionale” che ha avuto (e sta avendo) molta fortuna nella letteratura anglo-americana, in poetesse come Silvia Plath o Anne Sexton. Sostanzialmente, è una poesia di riflessione mirata, condotta a margine dei fatti della vita, e che accetta di attingere in grande misura dalle fonti autobiografiche, sia reali sia verosimili alla realtà, con una scelta valorizzante di episodi autentici molto semplici o elaborati per tali, enucleati dal vissuto e impiantati in strutture poetiche il più possibile scarne alfine di non oscurare con la rielaborazione artistica il grado di spontaneità poetica che l’elemento reale possiede già in se stesso. La Naccarato è poetessa dell’amore non soltanto nei termini erotici tradizionali del rapporto fisico e spirituale tra un uomo e una donna entrambi adulti, ma è poetessa dell’amore anche nella trasfigurazione e nella rappresentazione ideale dell’eros immaginato nell’età della formazione adolescenziale, quando l’eros è un pianeta sconosciuto che attrae più per la magia incantatrice del sogno e del miraggio, anziché per l’esperienza reale. Sotto questo profilo, pochissime scrittrici italiane contemporanee – per non dire nessuna, giacché è difficile fare un nome alternativo – hanno al loro attivo pagine altrettanto fragili e luminose quali quelle dedicate da Naccarato alla figura anonima e ricorrente di un “ragazzo”, sorpreso e descritto in più situazioni di febbrile sensualità, e che fa capolino nel contesto d’amore come un giovane daino potrebbe affacciarsi fugacemente al limite del bosco, attratto da un richiamo che lo sovrasta, ma di cui ancora non conosce né significato né portata. Se si dovesse procedere a una semplificazione didascalica minimalista, nei confronti di Livia Naccarato, come talvolta impongono le schede dei repertori poetici che concedono iscrizioni solo epigrafiche degli autori inclusi, si dovrebbe necessariamente registrare la scrittrice di Aiello Calabro come “poetessa dell’amore”, nella complessità delle voci e dei risultati cui questa categoria può da dare sbocco. E non sarebbe certo un’indicazione inappropriata e neppure parziale: Naccarato, nel canto della forma moderna e contemporanea dell’amore, ha dato il meglio di sé e ha costruito pagine mirabili di poesia italiana. I versi scorrono netti e chiari, in una cascata di rimbalzi versali, brevi e ricorrenti, che segnano visivamente spaziature, pause e fasi del discorso mentale della scrittrice – quel suo confessarsi, a poco a poco, a se stessa e al lettore – per brevi parole sussurrate e inanellate come grani di un rosario immaginario, come il filo di Arianna di un discorso che conduce alla “selva d’amore” di cui già diede conto la sopraccitata Sibilla Aleramo, ai paesaggi dell’anima che Naccarato ambienta nella contemporaneità dei suoi tempi e nello scenario della sua terra, ma che posseggono magici orizzonti dilatati nella temperie dei secoli e nella vastità dei continenti, come volo libero del poeta, che è un airone regale fra le nuvole, ma zoppo e goffo in terra. La Naccarato è poetessa d’amore nella centralità dei due simboli primari da lei assunti per rappresentare l’acme dei significati possibili della vita: il seno e le mani. Il seno non è solo figurazione della mammella che produce il primo alimento della vita, ma è anche la coppa del desiderio terreno più nobile possibile: l’unico desiderio che si colloca al di sopra di quelli della ricchezza e della gloria, perché il seno è il calice essenziale dell’eros, e pertanto rappresenta il massimo tetto di forza del desiderio, comune a tutte le creature dotate di vita, in quanto tutte le creature sono mosse dall’eros. Si dica inoltre che, almeno in alcuni casi, il seno in Naccarato assume il significato traslato – e abbastanza scontato – di ventre o di viscere della donna, con le implicazioni collaterali che tale metafora porta con sé, in termini di creazione della vita, di rinnovamento dell’esistenza, di proiezione dell’essere umano verso un’espressione di eternità raggiungibile grazie alla facoltà che egli possiede di riprodursi indefinitamente nel seno femminile. Le mani invece sono il simbolo del fare, della costruzione e della civiltà umana. La mano, inoltre, è il simbolo della comunicazione e della cultura, proprio perché sa atteggiarsi a segnale dichiarativo, capace di indicare la strada da compiere. E per concludere, la mano è il più prepotente simbolo erotico perché è la massima espressione del tatto e del contatto, attraverso cui l’eros si trasmette fra le creature.
La poesia di Livia Naccarato possiede l’ampiezza e la profondità di un discorso universale, pronunciato nel linguaggio della comunicazione aperta e con echi di cultura e di sogno che provengono sia dallo studio meditato delle antichità classiche sia dalla frequentazione della modernità, ma con una particolare inclinazione di ascolto e valorizzazione per le forme di cultura popolare e semplice, racchiuse negli usi, nei costumi, nei patrimoni di tradizioni diffuse presso il gran numero delle persone che costituiscono la società odierna, nelle quali sono tuttora custoditi i più autentici scrigni di poeticità ordinaria e genuina, fresca come acqua di fonte, ma anche distillata con profonda sapienza da un’azione di cultura raffinata capace di riassorbire i veleni e di valorizzare i nutrimenti necessari allo spirito di chi legge.

Sandro Gros-Pietro