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PREFAZIONE Questo libro giunge a suggellare un impegno esercitato per anni da Franco Zoja nella poesia, e che lo ha reso testimone e attore partecipe in tante differenti situazioni letterarie italiane, più o meno poetiche, talvolta di letteratura e talvolta di giornalismo, nella dolcezza evocativa del sogno ovvero nell’ansia della testimonianza civile. Zoja ha sempre riproposto, seppure con un atteggiamento di fin eccessiva riservatezza e di quasi ritrosia, il suo ragionare poetico, le sue argomentazioni puntigliose, costruite e formalizzate attraverso i versi, in un intricato rovello di asprezze, di troncature, di specificazioni parascientifiche, di particolarismi descrittivi e di improvvise annotazioni tecniche, intercalandole e miscelandole con illuminazioni evanescenti, con riverberi di eterea liricità, con idilliache visioni della natura e con una vocazione alla “verdità” che possiede bene di più del tempismo dell’impegno politico, ma che, invece, è una profondità costante e ricorrente di tutti gli esseri umani, in tutti i secoli della storia, e lo è simbolicamente nel nostro autore. Pur nella diversità e nella ricchezza dei temi che Franco Zoja, negli anni, ha coltivato si può dire che due siano le occasioni ispirative fondamentali: la prima è sicuramente la natura, per la quale egli spende anche la mozione autobiografica, dedicata ad Este, città da cui ha origine la sua famiglia, che nel padovano affondò le radici contadine, per cui sovente la poesia di Zoja è evocazione dell’agro atestino, la verde valle del basso Adige, dei colli Euganei, della vita contadina e di caseina, quale toccò in sorte agli antenati e che continuamente viene evocata dall’autore, il quale ha conservato la casa di famiglia e colà si rifugia con una certa frequenza. Il secondo tema ispirativo è l’impegno conoscitivo e critico della realtà, cioè la valenza rivelativa e di ricerca che viene riconosciuta alla poesia, intesa come sublime arte del verum: inventario ricognitivo prima di tutto condotto in sé e per se stessi, ma poi anche proiettato in un impegno vocativo di parola resa agli altri, come fosse atto dichiarativo e declamatorio in forma solenne. La poesia diviene, allora, sorta di memento indelebile e acclarante che suggella il significato della vita sociale in una cornice di perfetto splendore e di indimenticabile nitidezza espressiva. La forma espressiva è, dunque, il terzo tema fisso del lavoro in versi di Franco Zoja, una forma vagamente intonata alla narrazione e alla descrizione, ma sovente attraversata da visioni, illuminazioni, vibrazioni espressionistiche e accostamenti ermetici, confinanti con il mondo magico ed orfico, a riprova della grande quantità di registri poetici che Zoja impiega nell’ingegneria connettiva e nella liturgia celebrativa dei suoi versi. C’è un’ansia pessimistica di fondo, che è una sponda leopardiana, ammiecata con intenzione talvolta quasi irridente, con quelle estasi di melanconie lunari, quelle vicende da viandanti notturni, quel canto di vita che è evaporazione antropologica dai campi coltivati e svanente nella nullità desertica della storia umana. Ma c’è anche, più che un occhieggiamento ai classici, la consapevolezza dell’antica e solenne dignità che il canto dedicato alla natura possiede all’interno della tradizione poetica italiana e, prima ancora, nella letteratura latina, a risalire fino a Virgilio. Nella poesia di Zoja c’è anche un’ansia denunciativa e in forma polemica; c’è la convinzione che al poeta spetti il ruolo, giammai invidiabile, del fustigatore dei potenti, della voce liberamente denunciante i propri e gli altrui vizi; il censore illuminato, insomma, che agisce mosso da un intento non solo colpevolizzante i peccati degli uomini, ma soprattutto che agisce per sviluppare un’ipotesi salvifica e votata all’idealità del riscatto finale. Sotto questo profilo, si può arrivare a sostenere che un autore così apertamente e così conclamatamente laico come è e come si professa Franco Zoja arrivi ad acquisire quasi la valenza di un credo fideistico in un’altra giustizia e in un’altra verità, proprio perché attribuisce al poeta il ruolo pressoché profetico del disvelatore illuminato, cioè di colui cui è affidato il compito di cercare, celebrare e custodire il verum. Sandro Gros‑Pietro |
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