L'altro Io

A Fernando Di Gregorio

Risvegliare sogni sopiti: ecco il poeta e la traccia che il lettore inesperto deve seguire per avviarsi sul complicato cammino della creazione artistica. A noi ba­sta l’emozione, al critico dotto spetta l’ardua impresa di decifrare il mistero del messaggio inviatoci in tutte le sue implicazioni e riflessi letterari: se imitazione c’è sul­la scorta di uno scontato manierismo letterario, o se vi si ravvisa la schiettezza di una ispirazione sincera e autenticamente vissuta.
Se c’è sincerità è già un primo passo compiuto per avvicinarsi alla veridicità di sentimenti genuinamente coltivati nel segreto del proprio Io.
E qui, come si capisce subito da uno dei titoli della raccolta, è il protagonista di questi versi, questa volta un Io esplicitamente dichiarato, ma sempre presente, se pur taciuto, nelle altre collezioni poetiche di Fernando (siamo infatti al nono cimento letterario del­l’Autore) dove si distende vibrante di viva passione non un tormento che strazia l’animo per contrasti insanabili, ma solo l’ansia che spinge di continuo alla ricerca di un punto di approdo. Vi giungerà il poeta finalmente placato? Nessuno lo sa, non lo sa neppure lui, e insiste, ap­profondisce, indaga, si sprofonda fin nell’intimo an­cora inesplorato del suo vivere quotidiano.
Intanto egli cerca un punto di appoggio, un alleato che lo capisca e lo conforti, forse nello stesso lettore (“a chi canterò questa melodia…”, “a chi narrerò i miei sogni…”, ”chi consolerà il mio pianto…”), tanto per sentirsi sollevato, almeno per un instante, dalle “angoscianti assenze”.
Ma l’ansia si stempera man mano che il suo cammino procede come in un giardino, tra aiuole fiorite. O è la pioggia che “sgocciola nella notte”, o è un “lenzuolo d’erba all’ombra d’un ulivo”, o ancora “un az­zurro tenue dipinto d’ocra e porpora mentre muore il sole”.
Sono tocchi di colore che sembrano lenire un po­co una pena segreta compressa nel cuore, alla quale pare partecipare anche la natura che fa piangere “i salici trafitti da pioggia in fiumi di nebbia”. Ma si apre uno spiraglio: ecco che “vagheggia una primavera di viole” come un augurio di sospensione dell’ansia penosa. Suo­ni e colori si inseguono tra “pampini scarlatti” e stridii di gabbiani. Siamo sul mare, ma ritornano le an­sie: “muoiono i colori del mattino, muore l’imbrunire nella sera, muore la notte nell’insonnia, muoiono le note nel silenzio…”. Il giorno, la notte, che si accompagnano all’insonnia e al silenzio.
Ecco nuovi temi: il silenzio descritto come desolazione, il nulla che rimane dopo una breve estate e dove vanno i cirri leggeri ed erranti? Verso dove va il poeta? È quanto ci resta da chiederci, ma la risposta è difficile: i cirri si possono inseguire con gli occhi, ma fino a un certo punto, perché poi svaniscono. Ma i cirri poetici, le fantasie alate del poeta hanno tragitti impraticabili e irraggiungibili.
Si alternano in queste brevi composizioni mo­men­ti di felicità inespressa, nascosta, sotterranea: e questo succede quando appaiono i variopinti aspetti della natura, perché la natura è sempre bella, anche se piove e tuona la tempesta; e poi la pioggia: il poeta Verlaine, pur nella sua cupa e desolante tristezza, vi trova sollievo: “O bruit doux de la pluie par terre et sur les toits! Pour un coeur qui s’ennuie, o le chant de la pluie” (“o dolce rumore della pioggia che cade sulla terra e sui tetti! Per un cuore che si annoia che sollievo dà la pioggia sonora”). C’è un dolore soffuso nei versi di Fernando: la causa? Forse la spiega Verlaine: “Ce deuil est sans raison” (un dolore senza un perché). Il poeta si limita a esprimere i sentimenti che gli erompono dal cuore, senza spiegarsene la ragione. Ma perché questo insistere sulla pioggia, sulle nubi minacciose, sui turbini vorticosi, commisti ad arcani rimpianti antichi? Sono i tumulti interni che agitano l’animo del poeta e chiedono imperiosi di tramutarsi da fantasmi della mente in versi sonanti?
È ormai da più di un decennio che Fernando, con puntuale cadenza, dà vita ed espressione a questi fantasmi. Si è accumulato frattanto sui tavoli di vari lettori (lo leggono, sì) un cospicuo materiale che meriterebbe uno studio accurato per comprenderne l’origine e le motivazioni che l’hanno prodotto, e qui occorre la presenza e il lavoro di persone competenti e specializzate nella critica letteraria. Il lettore amico può dare solo un giudizio parziale, data la sua inesperienza in lavori di alta letteratura limitandosi ad esprimere tutta la stima che può esprimere per l’autore. Tutto ciò vien detto al fine di aprire più vasti orizzonti all’opera di Fernando perché venga meglio conosciuta e apprezzata la sua poesia in ambienti più qualificati.
Si rimane quindi come sospesi nel poter esprimere un giudizio sul valore, sulle qualità, sull’importanza dei lavori di Fernando Di Gregorio, senza comunque venir meno agli apprezzamenti personali già più volte espressamente ripetuti.
Il problema fondamentale riguarda la poesia: che cosa essa è, quando è poesia e quando non è poesia. Fin dove insomma si può parlare di vera poesia o di presunta poesia.
Se chiediamo ai grandi esperti di spiegarci che cosa è di preciso la poesia un Benedetto Croce, giudicato sommo intenditore (ma oggi non più come una volta a giudizio di autorevoli critici, come il franco-americano George Steiner che con duro piglio afferma: “l’Estetica di Croce è molto datata e non è possibile parlarne oggi”) avremmo questa risposta: “la poesia è intuizione estetica che risolve la totalità dell’esperienza spirituale nella purezza del fantasma lirico”. Chi ci capisce è bravo! Ma lasciamo il caso come si trova perché è ormai certo che una risposta definitiva non si avrà mai: ci basta leggere e godere l’ebbrezza dell’arte senza chiederci da dove e perché ci proviene: è come bere un bel bicchiere di vino senza chiederci se è Aglianico o Sangiovese ci basta gustarlo.

Stanislao Scapati