Bianche chiome
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Introduzione Leggere i versi di questa raccolta di Ennio Innaurato significa entrare in un’esperienza di vita dai tratti forti e generosi come quelli di un cavaliere medievale, tratti nei quali si intuisce il tormento di un’epoca storica. Ma forse quei tratti sono quelli rappresentati dal Dürer nella sua celebre incisione, cui non a caso fa da riscontro la meditante immagine della Melanconia, disperante che alcuna mathesis universalis possa definitivamente connettere il franto specchio del reale. In cambio, Innaurato ebbe il culto della personalità eroica e solitaria, anche affascinato da un raggio meridiano di niccianesimo, tuttavia orientato al segno cristiano della figura sacrificale. Anche nell’agone della guerra. Talvolta evocando la figura antica e abruzzese del padre, combattente della Grande guerra. E alcune amicizie di lui, segnate dall’esperienza della seconda delle due guerre mondiali, vissute nella memoria di un eroismo tragico e sfortunato. Un’eco di questi concetti la troviamo in un lucido epigramma dedicato allo scrittore Mishìma: "Amo la tua morte crudele e virile / Mishìma, da una lama sottile / evocata, la tua breve giornata / giocata tra i libri e la spada." (pag. 42) Certo, questa frequentazione ebbe anche un ruolo di esorcismo, specialmente nei confronti della tentazione gnostica sempre vinta e sempre seducente per uno spirito come il suo che sentiva la carne come una bellezza originariamente ferita. O forse, attraverso la carne, l’origine di una ferita dello spirito. Come quando la malattia recente della moglie Loretta gli strappa versi intensi e strazianti: "Un ombrellino nel cuore di Lori / mi dice il dottore, / vedrà chiuderà un passaggio / (ci vuole coraggio per dio) / io medito quel varco di carne. / Quasi un’occulta ferita / pel quale passa la vita sua e la mia." (pag. 29) Famigliare di Mazzantini, come si è detto, Innaurato ne apprese anche la musa filosofica di Eraclito, i cui aforismi tradotti dal maestro ne restituivano la scrittura enigmatica. La tensione oracolare vi traspare in una lirica notevole dedicata al mito di Edipo, che si acceca per punire i suoi occhi che hanno visto troppo. Ma il soggetto ora è lui, il poeta Innaurato che cerca pertanto di difendersi, "Non accecarlo non è Edipo / solo un dolore diffuso / che interdica l’apprendere / e l’indagare oltre le colonne. / La luce gli sia nemica, / ne abbia la fobia." (pag. 40) Il richiamo a Edipo non è gratuito. Innaurato ebbe veramente dal “dio” un male agli occhi che gli rese, negli anni, quasi impossibile la prolungata lettura. E un’altra lirica, che ha la rapida e ironica circolarità dell’epigramma, dà un’analoga spiegazione: la turpis curiositas. "Un dio verrà a velarti lo sguardo / nel ritardo della tua vita / ed un medico cercherà sulla retina / le ultime parole impresse / dalle spesse lenti lucenti. / Lei ha letto abbastanza, / forse era una turpis curiositas / si plachi, apprezzi la tenebra / della sua fronte, / forse un dio si cela ancora da incontrare." (pag. 51) Infatti fin da giovane Innaurato conobbe e frequentò gli ambienti artistici torinesi, alimentando il proprio interesse dapprima per la pittura moderna e i movimenti delle avanguardie. Aveva letto con interesse Evola, che come pittore ebbe parte nel dadaismo italiano. Il distacco da Evola, che avvenne in seguito all’incontro con il padre Pera, non diminuì questa propensione, anche se nutrì in lui nuovi orizzonti legati alla metafisica, come la sua dedizione all’arte e all’architettura barocca, di cui studiò a fondo i problemi della luce. In particolare fu in contatto con l’ambiente di Casorati, del quale fa memoria di un dipinto: "Sul tavolo una scodella, / di quelle di Casorati, / vuota rimane a giacere sulla tovaglia cerata. / Una figura piegata, / le mani sotto il mento, / lo sguardo prolungato sui legni del pavimento." (pag. 38) Marcello Croce |
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