Lontano faro
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PREFAZIONE I.
L’haiku è quanto di più sottile e avveniristico possa esistere in poesia. Scritto male, si avventa sul lettore con la sua banalità inaudita; un haiku autentico rende la realtà sottile al di là delle parole di cui è fatto; con la sua economia, esprime in un attimo fuggente ciò che tutta l’arte, forse dalle prime pitture nelle caverne di Lascaux (ricordiamo che la scrittura non è altro che una forma di pittura), cerca di esprimere: come è che l’uomo si trovi a vivere il sogno di sé e del suo mondo, senza mai poterlo pienamente afferrare. Inoltre, dal punto di vista formale, per scriverne uno non è necessario seguire alla lettera le regole ereditate dalla tradizione: l’haiku dà una libertà sconfinata al poeta innovatore, ponendogli una condizione: che sappia ricollegarsi alla sua essenza, che è tanto riconoscibile quanto difficile da evocare in parole.
Tuttavia, prima di iniziare, sento la necessità di accennare brevemente a quelle letture di haiku di vari autori cui sono stato presente più volte negli anni: la recitazione di interminabili composizioni lette a velocità, come le somme di una fattura, senza alcun pensiero per il pubblico che ascolta e nemmeno per l’eventuale merito di alcuni dei componimenti stessi. Ho un altro ricordo di lettura di haiku: quella volta a metà degli anni ’90 quando la BBC Radio – che io, esiliato linguistico e culturale in Italia, ascoltavo giornalmente – mandò in onda un programma sul poeta Bashō. Quest’uomo, il quale visse una piccola e quasi invisibile vita nella “arretrata” società giapponese del Seicento, nel corso degli anni trasformò l’haiku da composizione giocosa, goliardica, simile al limerick, in quella che è la prima forma di poesia moderna – e oggi più che mai in grado di veicolare la nostra sensibilità di uomini dell’Antropocene. Il programma era un interessantissimo compendio di notizie biografiche e commenti critici, alternati alla recitazione. Per quest’ultima si era scelto un formato del tutto adatto alla brevità estrema dell’haiku: lettura di un singolo componimento in lingua originale, subito seguito dalla versione inglese: il tutto della durata di pochi secondi. Silenzio: un altro haiku con traduzione, altro silenzio; un terzo. Poi si tornava al commento critico-biografico. E via dicendo. L’attenzione era totale. In questo modo l’ascoltatore afferrava qualcosa del senso del suono e dell’atmosfera originale, cui poteva, quasi sul momento, dare intelligenza in lingua inglese: afferrava anche la repentinità dell’haiku, e della sua ricaduta spesso lentissima, che si estende nel tempo, perfino negli anni. Inazuma ya yami no kata yuku goi no koe suzushisa ya hono mikazuki no Haguroyama La recitazione era una collaborazione fra il lettore giapponese dei testi originali e l’eccellente traduttore (e lettore) inglese, di cui non ricordo il nome (e adesso che vivo su una lontana isola greca non posso nemmeno fare le ricerche necessarie). Pur non letterato, il lettore giapponese era profondo conoscitore di Bashō, e lo venerava come maestro. Leggeva dalla pancia: le parole uscivano come ruggito, rauca parola d’amore, grido di disperazione, stupore – senza mai l’odore di una retorica teatralità. E pensare che quest’uomo non era né poeta, né scrittore, né critico: era un uomo d’affari! II.
Cerchiamo di capire come l’haiku “classico”, quello coltivato dai poeti giapponesi del 17°-19° secolo, sia molto diverso da quello di Lontano faro, e come si possa pertanto rilevare una sostanziale affinità – se non in certe regole base che ne governano la scrittura, e nemmeno come vedremo nella dinamica, sicuramente nel grado di rarefazione e tipica forza suggestiva. Per fare ciò prendo ad esempio uno dei pezzi più celebri: sebbene mille volte riproposto, penso che quanto segue aiuterà tutti a rileggere questo e altri haiku in modo più completo e immaginativo. Shikō ci riferisce come fu composto:
Quella primavera Maestro Bashō stava nella sua capanna in riva al fiume, a nord di Edo. Attraverso il quieto picchiettare di pioggia arrivava il tubare profondo delle tortore. Il vento era mite, e i fiori [i.e., sugli alberi] indugiavano. Alla fine del terzo mese, spesso lui sentiva il suono di una rana che saltava nell’acqua. Infine un sentimento indescrivibile galleggiò nella sua mente e si plasmò in due frasi: kawazu tobikomu | è saltata una rana mizu no oto | il suono di acqua Kikaku, che stava accanto a lui, fu tanto audace da suggerire come frase d’inizio le parole ‘le rose montane’, ma il Maestro scelse ‘furuike (ya) il vecchio stagno”. Se mi è lecito offrire un parere, penso che sebbene ‘le rose montane’ suoni poetico e incantevole, ‘il vecchio stagno” possiede semplicità e sostanza. L’haiku di cui si parla è: furuike ya kawazu tobikomu mizu no oto (In Makoto Ueda, Bashō and His Interpreters, Stanford University Press, 1992.) Il commento mette in rilievo una questione tecnica e metafisica nel contempo: dove dentro ogni singola poesia sta la sua chiave? Per quanto riguarda l’haiku in genere, si dice quel punto stare al crocevia – articolazione, punto vuoto, cesura, come dir si voglia – tra frase 2 e frase 3. E spesso è proprio così. Ma il resoconto dell’allievo-discepolo suggerisce che in questo caso il punto dinamico, la ruota di fuoco, sta proprio dove non ce l’aspetteremmo – nel punto di congiunzione tra prima e seconda frase, con movimento compositivo a ritroso dalle frasi 2 e 3 alla frase 1. La prima qui indica luogo e tempo umani: poiché lo fa in modo sottaciuto (cosa c’è di tanto speciale nell’immagine ‘un vecchio stagno”?), la frase ancor più si carica di nascoste associazioni, e quindi forte energia numinosa; così porta sulle proprie ali le due frasi successive, ciascuna delle quali è chiamata a veicolare, simultaneamente, tempo e spazio (ma nel senso oltre-umano, cosmico). III. il figlio di un contadino Menzionai a M. Kaul che la fotografia e il cinema avrebbero in ogni caso dovuto portare il poeta a privilegiare nella sua scrittura un sempre maggior grado di trasparenza, velocità e senso immediato delle cose, gettando nel cestino tutti quegli artifici letterari che ancora oggi costituiscono il farraginoso repertorio del versificatore mediocre. Solo così, sembrava a me, la poesia sarebbe entrata di diritto nel 21° secolo. IV. V. giungo alla foce luce che aleggia Il movimento non è quasi mai univoco, lineare: il senso ha un andamento a ritroso, altre volte serpeggiante, passando da una frase a quella successiva e poi tornando alla prima; altre volte saltando dalla prima alla terza, mentre già ha sfiorato qualche altra parte. È la poesia della indefinibilità: onda del Lete pareti bianche notte materna Nell’ultimo pezzo vediamo che la prima frase, pur non essendo decisiva, ha un peso enorme, incombe in maniera decisiva sulla composizione, mentre la terza è quasi sottaciuta. notte stellata Questi due ultimi pezzi mi ricordano di Yves Bonnefoy i primi versi della poesia “Du haut du monde”, in Ce qui fut sans lumière: Je sors, Noto quanto forte nell’autrice una certa squisita sensibilità francese, cui decenni di vita in un altro paese e un’altra lingua non hanno torto un capello. Spesso ho sentito in Lontano faro la voce di Bonnefoy, ma di quanti altri – Joachim du Bellay, ad esempio. Forse è soltanto il senso della memoria legato ad un certo concetto francese di ‘terra’ e ‘casa’, che ho ben conosciuto anch’io da bambino e giovane uomo fra la gente a Parigi, nelle campagne circostanti e più tardi in Borgogna.
Accenno qui al fatto che l’autrice di Lontano faro è nata in Alsazia: la sua lingua madre è il francese, in francese è stata allevata e ha studiato. Il fatto che in età adulta sia venuta ad abitare in Italia e abbracciando l’italiano come seconda lingua, anche di scrittura, è un fenomeno che propriamente dovrebbe chiamarsi ‘interlinguismo’. Gli autori che scrivono in una lingua straniera, hanno la propria che è presente ovunque, che si muove continuamente dall’ombra verso il primo piano, e vice-versa. Ne so qualcosa io, che provengo da un humus tedesco-inglese-francese. La lingua madre e le acquisite, in questi soggetti vivranno sempre insieme in instabile e mai facile equilibrio. Cito da Narrare nella lingua migrante, di Adrián N. Bravi (adrianbravi@gmail.com): In un saggio critico sull’opera di Julio Monteiro Martins, che è anche una riflessione attenta su tutta la letteratura della migrazione in Italia, Rosanna Morace scrive, a proposito del mutare lingua: “Non esiste quindi una lingua che si sostituisce ad un’altra: esistono correnti sotterranee e spesso inconsce che si alimentano l’una con l’altra, che si fondono e che nel loro unirsi creano l’onda che poi si rifrange sulla battigia: l’unica a noi visibile, ma dietro la quale si nascondono i profondi movimenti dell’abisso.” (Morace 2011, 33) Quando si entra in una lingua, è un mio parere, non si sostituisce mai la propria; piuttosto è la lingua madre che si fa voce nell’altra, trasformando la sintassi, sconvolgendo la fonetica, oppure scompaginando l’immaginario con storie nuove, che arrivano da lontano, storie che parlano di deserti, di viaggi o d’inaudite odissee per i mari. (http://www.ledonline.it/LCM/allegati/700-0-Lingue-Migranti_Bravi.pdf )
Adottare una lingua o altre lingue rimanendo nella propria (o proprie): questo è ‘interlinguismo’, ed è tanto più vero per coloro che scrivono: per il resto della loro vita entreranno e usciranno, andranno avanti e indietro fra le lingue. Bisogna esserlo per saperlo (un monolingue difficilmente può averne coscienza): sentire il pull e il tormento della multi-condizione linguistica è un fatto che immancabilmente si tradurrà in difficoltà culturali ed espressive. Poiché è la propria più intima sensibilità che deve quotidianamente tradirsi eppure rimanere fedele a sé stessa. Questo fatto mi lega in particolare all’autrice di questo lavoro. Ecco perché ‘translinguismo’ non ha alcun senso: il termine implica l’aver lasciato la propria lingua in modo definitivo, evento rarissimo o addirittura inesistente.
VI.
Per concludere, tornando al punto precedente, è una certa aleatorietà ‘controllata’ dunque ciò che caratterizza questa opera. Partendo da quello che si direbbe quasi una formula preconfezionata, l’autrice si toglie gli schemi e crea un’opera libera. Leggiamola soprattutto con questo in mente, per saggiare il suo grado di riuscita. Sicuramente lei ha passato ore e ore a selezionare frammenti di poesia e prosa da Pessoa, per poi ricomporli a seconda del suo pensiero, della sua ispirazione. Aleatorietà ci porta al fatto che abbiamo qui una scrittura non-autoriale, un’assenza di soggetto-oggetto, che si scontra con una certa forza con l’auto-referenzialità ancora vigente fra i poeti, siano essi “tradizionali” o “ontologici”. L’haiku è, per sua definizione, non-autoriale; e anche in questi testi il senso di sé viene scardinato quasi del tutto. Sembra che per l’autrice il bellissimo appartamento, la antica città vissuta da decenni e conosciuta in ogni suo minimo alveo – tutto questo senso di ‘appartenenza’, niente è di fronte all’emozione di andare in cerca di pezzettini, frammenti di poesie nell’opera di un poeta che per quanto ‘grande’, rimarrà sempre oscuro. Ammiro la devozione della poetessa verso il poeta: dà al Lontano faro una certa austerità esistenziale (se non addirittura spirituale); severità; rigore nel trovare nelle immagini così assemblate l’equilibrio sempre pericolante della verità interiore del vivere: pensare frasi fioche presenze baia tranquilla urlo inespresso fiumi infernali luce scomparsa l’onda si frange (Cfr. con il secondo di questi ultimi tre haiku il distico da me tradotto di Mirza Ghalib – nato a Delhi 1797 e morto nella stessa città nel 1867: anche noi ricordiamo lo splendore di sontuose e policrome feste / meri arabeschi ormai che sbiadiscono nella nicchia dell’oblìo). Steven Grieco Rathgeb |
Prima di essere pubblicato, dovrà essere approvato dalla redazione.