Alghe e fanghiglia
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PREFAZIONE A Edith Dzieduszycka
Minuti Curioso annotarlo, ma qui Edith Dzieduszycka pare animata, suffragata da una di quella istintive, connaturate illuminazioni care a Leonardo, che fra pensiero e ragione, corpo e anima, non pone giustamente confini, ostici e dottrinali, ma riconduce semmai il tutto al flusso sacro e concreto degli eventi umani, d’ogni destino armonioso perché umanato: “Il corpo nostro è sottoposto al cielo e lo cielo è sottoposto allo spirito.”… e se non ci riesco Aleggia Shakespeare, il che non guasta (“Spengiti, spengiti, breve candela”… Macbeth; “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”… La tempesta): ma quell’imperativo dolce e suadente – nel sogno afferrare – e per giunta l’invisibile filo / che mi ci porta – ma soprattutto la clausola finale (… e se non ci riesco / spengere la candela…), ci conduce lieti, e nuovamente, a una delle più lampeggianti profezie, favola versificata dell’universale genio di Vinci: Il lume è foco ingordo sopra la candela. Anche la Vita Nuova, il primo testo di Dante, breve e magistrale (ininterrotta dedica alla sua Beatrice, o Bice, Portinari), comincia con un sogno. Denso, forte, nitido ma irrelato: “Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa”… dondola Questo nuovo libro di Edith Dzieduszycka, fumigante tra sogno e realtà, nel poetare e afferrare di continuo l’invisibile filo che ci trascina, ma almeno non ci fa smarrire, è testo raro, diamante d’eccezione: è il suo sogno coniugale, trasposto e interminato di Michele (forse perfino vicendevole – quello che Lui potrebbe riflettere e divinare arcano di Lei: sogno scambiato, diciamo pure, dal cuore all’iperuranio…). ma nel buio rimangono Non poco commosso e costantemente emozionato, prima di scrivere di quest’ultimo suo poetare, ho riletto tutti (o quasi) i suoi libri, quelli struggenti e rivelatori, gnomici e drammatici, decisivi come un documento, una pubblica e privata tappa esistenziale (Diario di un addio, L’oltre andare, Nella notte un treno, Cellule, Trivella…); ma anche gli altri, invece talvolta manierati, cesellati in gioia ed estro dello stile, languidamente cadenzati a divertissement…
Mi sono anche immerso nelle sue mirabili foto d’arte; riconsiderando una produzione espressiva sempre elegante e necessaria, necessitata appunto dall’estro, dal richiamo ispirativo, e da una sorvegliata, certo, ma fervorosa e magnanima educazione emotiva, dedizione al Bello: Histoires d’eau, Couleur du temps, Feuillages, sino agli Strati astratti… Ho memoria di cose impercettibili *** Edith scrive sempre, in fondo, preghiere laiche. Con la bellezza di una fede vera nella vita, che l’ha fatta bella. E l’ha resa, diciamolo, vedova ma eterna cantatrice di Bellezza – un soprano dispiegato o sottaciuto, sussurrante, dell’Essere; ma che, per farlo bene, cantarsi in ogni nota della vasta, irripetibile partitura che ci è concessa, deve attraversare, esplorare e varcare fino alla Luce tutta una nuova Genesi, una caverna inselvata di Dolore. Barriera o capolinea È sempre un viaggio dantesco, il nostro. Ma – ecco la novità – qui dobbiamo arrischiare, osare (e in fondo anche giocare, nel senso bello, libero e fluido del termine) una intuizione critica oltranzista e osé, squisitamente sub specie feminina.
Un viaggio, nuovamente itinerarium mentis ad Deum, epperò in vicenda e corpo di donna, moglie, madre, cittadina del mondo: a sua volta Lei stessa figlia, nipote, discendente di figure amorose, e piccole-grandi ma sempre preziosissime vicende storiche, a partire dall’Alsazia-Lorena avita, che ha amato e sofferto – una delle regioni più contese e combattute d’Europa – come simbolo delle radici stesse del nostro continente, radici saldissime ma nutrite da ansie erratiche, prove durissime, e finalmente l’ininterrotta Recherche di un dolcissimo, esemplare, ora, Tempo Ritrovato…
Avventurarsi al buio a piedi nudi Leggere, risalire, liberarsi da queste Alghe e da questa fanghiglia: ma come se si potesse, si riuscisse realmente a immaginare una discesa di Beatrice nell’inferno del mondo… Mai in fondo era stata scritta, forse nemmeno immaginata… per la Creatura che discesa a miracol mostrare, additava e aiutava solo e sempre a salire, ascendere, elevarsi al Bene (molto al di là delle eterne, fin troppo illustri biografie poetiche, gli sliricati romanzi esistenziali delle grandi poetesse del ’900, per cui la vita è stata inferno, talvolta purgatorio, quasi mai paradiso di luce: dalla Achmatova alla Cvetaeva, da Amelia Rosselli a Sylvia Plath, dalla Bachmann alla stessa Alda Merini)… Dentro sé stesso Scendere invece in semplicità – umiltà sofferente e all’unisono, al contempo perfecta letitia, forse francescana o quasi d’inconscio –: ecco il nuovo umile ma destinato miracolo, fino alla sorgente angusta, petrosa della Luce (come una vena prodigiosa d’acqua, prima incredula, errabonda di malessere, peregrinante attraverso e dentro decenni che sono stati, ma non sono più): e da lì, proprio e solo da lì, ripartire, alfabetizzare il cuore, le movenze o mancanze dell’anima; per meritare, investigare questa volta un Linguaggio, finanche poetico, che non sia mai più semplice, statica eredità acquisita, preziosità ricevuta: ma un qualcosa di nudo e cruciale da ritrovare, recuperare e meritare proprio grazie e lungo il percorso. Da siffatti detriti In soli sette versi, Edith lievita, ci conduce dai detriti (ma scandagliati, periziati, fatti tesoro) al fermentare (passando per gli indizi, le tracce, la fanghiglia in metafora del vivere)… E “fermentare” è verbo di ben nobile auspicio: fermenta il mosto per darci il vino, fermentano (migliorano) le idee… anche le ribellioni, le ansie (“l’anima fermentava di paure” è una nobile analogia di Stuparich)…
Edith s’incammina e sogna – o forse è proprio il sogno il suo cammino: di notte o giorno, ancor più ad occhi aperti.
Un suo (ed anche nostro) nuovo, paziente e talvolta inquieto, ma caparbio e benevolo Cammino di Santiago, l’idea che la fede – laica, s’intende, ma la fede non vuole, non sopporta aggettivi – la fede ci salva, la tua fede ti ha salvato… La fede che è sempre umile figlia dell’Altissimo:
La chiave di quel racconto Ogni tanto la sera Splendida, la figura insieme struggente e indelebile, esemplare e mitica della madre, Geneviève de Hody (di cui ha curato e tradotto La maison des souffrances, diario dell’esperienza nella prigione militare tedesca di Clermont-Ferrand). E belle davvero tutte, le liriche di Edith legate all’infanzia: ai suoi anni verdi ma duri, allibiti di smarrimento e insieme di silenziosa, acerrima cognizione del dolore – familiare e storico, intimissimo e insieme epocale.
Una poesia radicata e sempre in gemma, come una vicenda, delle immagini ferme per sempre nella camera oscura che poi conduce alla retina radiosa, all’uscita poetica, fulcro, atrio, endocardio del suo (e forse anche nostro) cuore, vestibolo d’ombra e confine di luce.
Per i miei cinque anni *** Edith ha sempre fatto questo, con le sue poesie: ha ordito, costruito, inanellato un percorso che ora, finalmente, riusciamo in toto a riaggregare in progetto, a svelare vastissimo e minuziosamente rimettere a posto, orchestrare insieme… Come fosse l’architettura, il meritato miraggio d’un Golfo Mistico, e non più l’orrido o incubo inesorabile, i baratri intermittenti e romanzeschi della Vita, la pena insieme di Essere e Tempo, e insomma il novecentesco, fastidiosamente assuefatto ormai, ma in ogni caso dissonante, malinconico, male di vivere… E nostro (in)civile teatro dell’Assurdo… Stanze della mia anima Ma glissiamo sulle strategie o disquisizioni letterarie – che certo non sono sue, ma semmai debolezza, ahinoi, consuetudine e habitus mentale dei critici, le etichette che tanto amiamo attaccare – e torniamo alla pura, fresca sorgente, fons Bandusia del suo linguaggio, e all’interminabile viottolo di luce che anche Lei ha condotto dalla Selva oscura a una divina foresta che ha guadato, oltrepassato la Storia fino alla fertile plaga e contrada dell’Amore…
La poesia, ecco, sono tutte le Alghe e la fanghiglia che Edith ha varcato e superato, ma insieme le sono rimaste addosso, infibrate in un corpo fisico perché poetico che come per miracolo ha lenito, suturato le sue stesse ferite di percorso – i detriti morali e mentali – le tante spine incarnate, incistate nella pena educata, a tratti lieve, di una docile, quotidiana, rasserenante, perfino, via Crucis.
percepire il ronzio che lancinante Continua il ribaltamento: se qui, più che altrove, Edith ha presentito e sofferto davvero come una drammatica, inopinata Comoedìa anche di Beatrice, discesa agli inferi e poi risalita dalle care o più aspre ombre alla linfa Luce, in un purgatorio di saggezza e verso un paradiso che non ha altri confini e braccia a noi protese che il vero Amore, il coniugio mai terminato se adempiuto, miracolato promessa dopo promessa; e la promessa, come Anima o Poesia sancita, ci incorona, qui la fa umile Regina, piccola sovrana del Bene, ecce ancilla Boni… … cambiando l’emisperio, si dilibra, (Paradiso, XXIX, 7-12) Qui, più che altrove, ogni poesia è un fazzoletto con cui Edith/Veronica ha nettato, asciugato non le lacrime e il sudore sanguinolente del Cristo che è in ogni povero cristo, uomo che soffre (il compianto Michele) – ma sopra il suo stesso, caro e docile viso angustiato nel breve ma pungente Calvario quotidiano che troppe volte ci risucchia, ci lambisce, ci reclama a conoscerlo, il Dolore: e come Dio, non nominarlo mai invano… Si pesa la sofferenza *** Nominalismo per nominalismo – e tornando al titolo, Alghe e fanghiglia, qui le alghe (ben al di là della loro sempre maggiore importanza dietologica e nutritiva: quasi una scommessa per il futuro) richiamano e rimandano alla pura e acquatile essenza del sogno, alle ombre cupe o verdeggianti, rischiarate nella notte blu d’ogni sana, sacrosanta deriva onirica… Per il piacere insano di rimestare Mentre la fanghiglia rimanderebbe semmai, comunemente, al significato di un semplice strato di melma fangosa… Ma nell’accezione geologica della geografia fisica (ad esempio, la “fanghiglia glaciale”), diventa molto di più, in un fascinoso, inopinato ondeggiare tra dimensione fisica e metafisica: è infatti il deposito di particelle finissime che si forma in seguito all’abrasione delle rocce, operata dai ghiacciai…
Ricordo un passaggio molto bello di Valerio Magrelli, una prosa lirica dagli Esercizi di tiptologia (1992), “L’anti-Mazur”, in cui il nostro (in una deriva o rarefazione psicologica davvero post-kafkiana), si sente “talpa” e scava, scava “sotto la coscienza”:
“(Letto su un’inserzione pubblicitaria, del folle ingegnere russo intento a penetrare sotto terra, il più sotto possibile, trivella e gorgo, gurgite e revertigine, scienziato della notte e della nera terra. Pozzo di Kola, a settentrione del circolo polare: per ventimila metri, nelle viscere cristalline della Grande Carcassa Catastale, Vladimir Borísovich Mazur sfoglia la crosta del pianeta e scende. Scende, mentre io sto salendo dal fondo del mio buio).”
“Ah, che voglia di scrivere,” – ammette e confessa Valerio – “che voglia di zappettare ancora in quella fanghiglia, in quella famiglia di fango, a mia volta, di intingere la mia lunga penna d’oca nella lingua dell’idolo spiantato, sbucato, cresciuto, nel seminato di questo tavolo operatorio.”…
Edith raccoglie, quasi colleziona alghe, e zappetta, scava, rimuove fanghiglia. Fanghiglia e detriti, scarti del vivere e del pianeta. Può tutto questo condurci, quasi arare, sarchiare e riseminare poesia? Eccome… Nell’alba appena schiusa seminava il grano E i detriti spesso nominati, perfino invocati, nella fitta trama del libro, rimandano forse ai fascinosi e inquieti metodi artistici, espressivi, di chi col materiale, solo col materiale di recupero, ha avuto voglia di continuare a intavolare, osare un onesto e nudo discorso espressivo. Pensiamo, tanto per dire, a Jean Dubuffet… insomma a tutta una certa art brut che in nome della spontaneità del bambino, del semplice, perfino della pazzia, e contro l’imperio intellettualistico dell’astratto, la moda dell’informale… raccoglie scaglie e scorie e le reinventa, le rinnova a graffito, un po’ come in fondo facciamo con le parole dei nostri stanchi e frustri alfabeti, specie poetici… è sparita anche quella Lo capì del resto Eugenio Montale già all’inizio del secolo scorso (Ossi di seppia, 1925),quando l’Europa, in piena, tronfia e contagiosa retorica fascista, invece di darsi pace dopo la Grande Guerra, preparava accuratamente, proditoriamente, un altro Conflitto Mondiale, assai peggiore del precedente: Non chiederci la parola che squadri da ogni lato *** Qui Edith Dzieduszycka è soverchiata, annichilita e angustiata dalle parole; esse l’assediano da ogni dove (come fin troppo spesso nei suoi libri: che giocano e s’addestrano quasi sempre a imbrigliarle, domarle – queste effuse ma coraggiose parole – tra fantasia e destino esistenziale)…
E invece la sua arte, o fede e preghiera, torna alla giusta voglia di sceglierle, rinnegarle perfino, testarsele nuovamente tutte, degne o indegne d’anima, care e soffuse al suo corpo, come carezze giuste e condivise, sguardi riflessi, amorosi solo se congiunti a specchio:
Potessimo estrarre Allora, se la parola – le parole – non giungono più ad aprirci il mondo, tutti i migliori mondi possibili, valgano, restino almeno a redimerci il male e i travagli, ad aprirci e riaprirci il cuore… Il cuore risanato: Tranquilla va lasciata la crosta d’una ferita. Le alghe e la fanghiglia di Edith sono gli stessi, sempiterni, scarti o detriti del mondo – dunque anche gli stessi, i medesimi nostri, ansie o gemme schiantate, virgulti feriti eppure anche e ancora fiori da far fiorire, e soprattutto capire, carpire dentro. Quante storie galleggiano Capirli voci e volti, parole cui rispondere, con cui dialogare anche in silenzio, o nell’essenza di un Paradiso – cantava Sandro Penna – “altissimo e confuso”… Questo l’insegnamento più bello del libro di Edith, che è anch’essa umile allieva della Vita arcinota, e ancella dell’Ignoto: Non è presuntuoso Alghe e fanghiglia della Storia, di ogni storia piccola o grande che ci chieda di non essere pavidi mai più, o peggio indifferenti agli oltraggi all’Uomo, al Bene… – Che notizie mi date dal fronte degli eventi? Ci chieda, esiga piccoli e buoni e sani eroismi quotidiani, anche quello di raccattar parole, raccoglierle, carpirle (e prima sceglierle, onorarle, staccarle, strapparle via da l’orlo bavoso e muto della memoria) come i fiori di campo che si portavano poi a casa, o si donavano in convegno campestre o cittadino agli amori semplici e assoluti, fidanzati al Tempo che non delude, se sconfina sempre e solo nella Luce. Ali sul mio collo Poi confluisce, d’acqua dolce, nell’immenso oceano: salato dell’Ignoto. (agosto/settembre 2019) Plinio Perilli |
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