Festina lente
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Prefazione La poesia di Cristina Spinoglio offre una visione colma di attese, di aspettative e soprattutto di meraviglia per lo spettacolo che il mondo propone nel continuo rinnovamento di fragile, ma persistente bellezza. La poetessa ha saputo mantenere vivo nell’animo e nei versi lo stupore per l’immensità della creazione, che si manifesta agli occhi con tenera dolcezza, in un trionfo di fenomeni rivelatori ed epifanici. L’ammirazione stupefatta della scrittrice si eleva a sentimento di devozione per l’artefice misterioso della magnificenza del creato, ma anziché produrre un trasecolamento o una vertigine metafisica, suscita nella scrittrice un’alacrità partecipativa e riflessiva: una sorta di chiamata consociativa a condividere i tempi e i modi, i colori e i suoni, il variare delle stagioni, la mutevolezza dei luoghi, nell’alternarsi dei paesaggi di città e di campagne, di monti e di marine, di prati e di boschi. In tale modo la poesia di Cristina Spinoglio diviene una declinazione delle forme di galateo con cui la vita di ogni singolo uomo si unisce in correlazione con il respiro esteso dell’ambiente naturale circostante. Quasi si può discoprire una religione di nuovo panismo, nella quale invece dell’annullamento dell’uomo nella naturalità del creato, si assiste a un dialogo operoso e continuo tra le espressioni universali della natura e la dimensione altrettanto estesa e profonda della cultura, inventata e creata dal genio umano come linguaggio che si interfaccia in modo continuativo con quello usato dal misterioso artefice. La luce, agli occhi della Poetessa, è il tappeto magico su cui prende abbrivo il dialogo delle corrispondenze. Il mondo creato è una fonte inesauribile di luce e la Poetessa funziona come una sensibile fotocamera che percepisce ogni lucore, barbaglio, illuminazione e splendore, a principiare dalle penombre cinerine dei crepuscoli per arrivare fino alle smaglianti lucentezze o folgori capaci di offendere la vista con la potenza dell’energia che emanano: tutto si tiene e tutto si compone in una sinfonia di significati, che sono metafore della vita, sono linguaggi codificati di corrispondenza tra il mondo naturale della creazione e il mondo artefatto della cultura umana. Non è un caso che il libro di Cristina Spinoglio inizi con un vocativo indirizzato alla Preghiera della sera, per di più “in una luce lancinante del disgelo” o piuttosto “in uno spruzzo di luce” come viene indicato rispettivamente nella prima e nella seconda poesia che aprono in coppia, con lo stesso titolo, il viaggio poetico della poetessa. Non deve sorprendere che si tratti di un viaggio, non solo compiuto negli spazi ideali delle mente e dell’anima, ma anche registrato negli spazi geografici dei luoghi visitati dalla Poetessa. Si inanellano stazioni a rosario di un percorso poetico che si inizia con la Provenza o meglio ancora col Delfinato, con le Prealpi di Vercors. Da quei luoghi, così carichi di vestigia di storia umana e, contemporaneamente, rimasti in gran parte incontaminati nella rigogliosa ed ermetica bellezza originaria, si dipana nello spazio un viaggio per l’Europa, che porta in Spagna e che conduce in Svezia, ma che ha il fulcro della principale frequenza nelle bellissime contrade italiane, autentico giardino d’Europa, nel quale il massimo incanto delle bellezze naturali coincide all’unisono con la maggiore testimonianza delle opere artistiche. Fa piacere constatare che nella Poetessa c’è un’attenzione affettiva particolare rivolta al nitore urbanistico della sua città, Torino, nella quale sono descritte come due pale d’altare paredre la verzura dei Giardini Reali e dei loro alberi secolari, giustapposti all’imponenza svettante della Mole Antonelliana, per quel continuo dialogo immaginario tra le opere della natura e il correlativo relativo delle opere della umana cultura. Oltre alle intonazioni della luce, che è un autentico Leitmotiv della poesia di Cristina Spinoglio al punto che quasi ogni testo è caratterizzato da un’osservazione attinente la luminosità o, al contrario, il buio da cui è volta a volta marcato, vi è un secondo protagonista che sempre emerge nei versi, fino a rappresentare una sorta di fil rouge. Si tratta dei fiori, delle piante, degli arbusti, dell’immenso patrimonio della flora mediterranea e continentale italiana e non solo, ma anche europea. La “parte del leone” – si perdoni il bisticcio tra protagonisti della flora e della fauna – la fa l’ippocastano, con le sue monumentali chiome e le infiorescenze erette a candela nel fasto delle fronde. Verrebbe automatico sottolineare che si tratta di un albero marcatamente metropolitano, perché considerato a giusto titolo solo ornamentale, ma poco utile per le necessità produttive dei contadini, non granché disposti a dedicare risorse di lavoro e di preziosa acqua per l’irrigazione per alimentare un albero che sa offrire solo bellezza ornativa. Anche per questa strada, ancora una volta, si sottolinea il connubio tra la bellezza offerta dalla natura e i canoni di bellezza umana architettati dall’uomo nell’edificazione delle sue città. Tuttavia, va detto che l’elencazione floreale è vastissima, non si limita certo al solo ippocastano, ma comprende molte varietà di fiori e di piante d’alto fusto, fra le quali piace ricordarne almeno tre: il gelsomino, per la sua aristocratica (e sensuale!) cittadinanza poetica conferitagli da Pascoli; l’agapanto, per la sua esoticità africana, tuttavia bene ambientatesi anche su balconi e giardini torinesi, e la gaultheria apprezzata dagli erboristi per le sue proprietà farmacologiche, anche volgarmente chiamata “tè del Canada”. Una spigolatura interessante è notare che la Poetessa concede l’onore della cittadinanza poetica anche a un lepidottero infestante, parassita degli ippocastani, che nel suo stadio terminale assume le sembianze di innocente farfallina, la cameraria ohridella, che tanto vezzosa poi non è, in quanto depone le uova sulle foglie della pianta e le larve a poco a poco fanno ingiallire anzitempo la chioma dell’albero, come la Poetessa spiega nei suoi istruttivi versi. Sandro Gros-Pietro |
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