O Principessa!
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Nel sogno, nell’anacronia Nella fiaba, così come nelle ventuno narrazioni vergate lungo la catenaria di queste «paginette di araldica pretesa», popolate da «monarchi, principesse, nobili decaduti o decadenti» e contraddistinte dall’antica sapienza di Carmelo Pirrera, colano smalto e pigmenti d’una scrittura controcorrente, corroborata da vibrazioni arcaiche, nobilitate dal tempo, proprio per quel loro navigare nel gorgo magico dell’anacronia. E non sempre appare necessario dare spiegazione d’un fatto, un accadimento, una frase posta al centro del cuore; d’altronde, annota Lella Gandini, che di fiabe nutre la sua esistenza, come in esse «non tutto può essere spiegato; anche se si ispirano al mondo reale, l’invenzione, il fantastico, il fatato contribuiscono a creare una situazione di mistero… dove i personaggi a volte rimangono temporaneamente muti o prigionieri»; ma, vi aggiungiamo, in ogni caso ‘veri’, plasmati d’una verità gemmata dal gesto d’origine, da una sorta di primaria innocenza narrativa. D’altronde nell’anacronia, tempo dello spaesamento e dislocamento alimentano il racconto dell’anima. Così nella tradizione favolistica siciliana, sostanziata soprattutto dalla “fiaba di magia” (nell’accezione redatta da Antti Aarne), trovano estensione connotativa un ampio ventaglio di emergenze linguistiche; consistenza e origine, suggerite da Propp, posseggono, com’è noto, climax diversi. La civiltà della favola siciliana, non può non essere considerata senza le declinazioni offerte dalla maglia tassonomica e interpretativa confezionata dal demopsicologo Giuseppe Pitrè, al fine di rivolgere quell’attenzione particolare su tale modello creativo, sulla indubbia valenza pedagogica e didattica. Da “Re cavallo morto” a “Marvizia”, da “Rosmarina” a “La bella dalla Stella d’Oro”, veicolate, appunto, dall’antropologo siciliano, a “Fata Morgana” (Gonzenbach), a “La Montagna d’oro” (Grisanti), fino alle rielaborazioni di Giovanni De Natale (dal “Ratto della Regina” alla “Vergine di Isnello”) o alle Leggende di Sicilia agitate da Giuseppe Foti (1937), o alle variabili estetico-letterarie di segno calviniano, fino alle più recenti Fiabe siciliane firmate da Lella Gandini e Roberto Piumini (1995), il “linguaggio della fiaba siciliana, il suo dialetto”, ha osservato Renato Aprile (1991), favoriscono “quella concisione che è propria della sua indole”. A tale valenza s’impongono i luoghi della parola, che è parola poetica, versione dell’esistenza estravagante, plurimillenaria accensione di sentimenti e riflessioni suggerite dal traslato metaforico. Così Carmelo Pirrera nei suoi ‘step’ narrativi di O Principessa! pone, sul tappeto della fragranza fantastica e in un volontario dislocamento degli elementi ecotipici (almeno per il marchio originario di certe leggende), il comune denominatore della figura femminile, dolce e gentile, colma di grazia, ma anche risoluta e crudele: colei che registra il peso del mondo con un rabesco di pensieri, con misura adeguata di proposizioni, con logica commisurata ai tempi. Paginette, appunto, in cui il sentimento dilava nello spostamento temporale, in una sinestesia tra passato e presente; non certo guinizzelliane pulsioni d’amore, auliche ed aulenti, ma linfa volta al segno d’un meticciato tra nobiltà e sudditanza, tra potere e subalternità, non disgiunta da sapida quanto menandrea ironia (non a caso, nell’incipit di questo tessuto, ci si meraviglia del perché si pianga nel proprio, ma non in “altrui verone”). Gli aerei protagonisti vanno alla ricerca di emozioni, ora nello sguardo sognante (quanto etilico) di un pittore, ora tra regnanti di un luogo imprecisato, intristiti e impoveriti dalla iterazione dei giorni, dalla noia del potere. Allora, per nobiltà fasulle o sfilacciate, principesse, svagati custodi di manieri, vagoli giullari, sognatrici d’acque, contesse e inappagate nobildonne, si approda ad un “colapesce” postmoderno e bizzarro la cui principessa, per la quale egli (così nella leggenda) sacrifica la vita alla ricerca dell’anello sepolto dalle azzurre e crudeli acque del mare, fuma, con pagana disinvoltura, sigarette (ed è perfino capace di «farsi uscire il fumo dal naso»). Essi ri-creano un mondo, in poche e concise tracce, in cui lingua e attuali pigmenti sociologici connotano il disagio del vivere, e, con esso, l’urgenza di utilizzare il racconto quale collante ludico e salvifico, permeato, nel sottofondo, da un riso che, come annota Michele Rak per Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, è comunque più di pertinenza “dei potenti”. Con tali concimi vengono animate queste pellicolari pagine pirreriane, volte e tramate d’una poesia tenue e malinconica; quella poesia che sostiene, da sempre, la vita creativa di Carmelo, in un’aura impalpabile e amara insieme, in una volontà di sogno immersa nel peso della realtà, dell’insoddisfazione; d’altronde, è detto, «quando si sogna, si è sempre soli, soli con la propria gioia, o con la propria pena.» Aldo Gerbino |
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